L'Europa e il futuro della politica
IL RAPPORTO TRA I DIRITTI UMANI E LA SOVRANITA' NAZIONALE
Antonio Gambino
Nel mio intervento, vorrei lasciare da parte l'aspetto europeo della nostra discussione, vale a dire il ruolo che i diritti umani possono e devono avere nella costruzione di una effettiva Unione europea, per fermarmi, invece sul tema più generale del rapporto tra i diritti umani e la sovranità. Vorrei cioè tornare sul problema - che, d'altra parte, negli ultimi decenni è stato molte volte affrontato - del modo in cui questi criteri si collocano nei confronti sia della sovranità esterna degli Stati, vale a dire della indipendenza di ciascuno di loro nei confronti degli altri suoi simili, sia della sovranità popolare. Al fine di valutare ancora una volta il carattere profondamente rivoluzionario, o se si preferisce, "sovversivo", che tale nozione assume in entrambi questi contesti.
Per quanto riguarda il primo punto, ben poco è possibile aggiungere a quanto, ormai quasi un quarto di secolo fa, ha chiarito, con grande lucidità e precisione, Hedley Bull. "Portata alla sue estreme conseguenze logiche - scrive infatti Bull nel suo libro più famoso, The Anarchical Society - la dottrina dei diritti e dei doveri umani ha un carattere sovversivo nei confronti dell'intero principio che l'umanità debba essere organizzata come una società di Stati sovrani. Infatti, se i diritti di ogni uomo possono essere rivendicati sulla scena politica mondiale al di sopra e contro le pretese del suo Stato, ed i suoi doveri messi in luce senza tener conto della sua posizione come suddito o cittadino di tale Stato, allora la posizione di tale Stato come un corpo dotato di sovranità sopra i suoi cittadini, e autorizzato a pretendere la loro obbedienza, è stata messa in dubbio, e la struttura della società internazionale è stata posta in pericolo. La via è stata aperta al sovvertimento (di tale società) a favore del principio organizzativo alternativo di una società cosmopolitica"1
Un esempio concreto può probabilmente facilitare la percezione di tale cambiamento: che altrimenti può apparire - anche se non lo è - astratto. Prendiamo quindi come punto di riferimento uno degli snodi fondamentali non solo della classica convivenza internazionale ma anche del nostro secolare bagaglio culturale: quello del binomio "politica estera-ragion di Stato". E cerchiamo di vedere in che modo esso, nel nuovo contesto dominato dalla concezione dei diritti umani, risulterebbe modificato.
Concepita nella sua forma tradizionale, la "politica estera" può essere definita come la specifica attività attraverso cui ogni Stato si propone un accrescimento del proprio potere al fine di difendere e di promuovere quelli che, secondo la propria autonoma valutazione, ritiene essere i propri interessi vitali. Mentre la "ragion di Stato" è la convinzione che il raggiungimento di questo fine è un obiettivo di così assoluto valore ("salus populi suprema lex esto") che ogni azione che vi si ispiri, anche la più contraria alle prescrizioni etiche comunemente accettate, deve essere giudicata lecita e perfino doverosa. Con il corollario che un simile criterio, ed una simile norma di condotta, non riguardano solo i governanti ma anche i membri di ogni singolo paese. Da cui deriva il dilemma dei "cittadini morali e Stati immorali" (per riprendere il titolo di un famoso saggio di Reinhold Niebuhr): il fatto, cioè, che gli stessi uomini che nella loro vita privata si sforzano di mantenere una condotta moralmente irreprensibile, non solo obbediscono all'ordine dei loro governi di operare in modo totalmente diverso, ma spesso compiono tali azioni con slancio e con un profondo senso di appagamento, se le ritengono indispensabili, o anche solo vantaggiose, alla comunità politica a cui appartengono.
Inutile nascondersi che - a dispetto della lunga e costante riflessione su questo tema - tale dilemma non è stato ancora sanato: nel senso che esso seguita a presentarsi all'uomo moderno con la stessa "faccia di sfinge" - per usare la bella immagine di Friedrich Meinecke2 - che aveva quando, quattro secoli fa, fu per la prima volta teorizzato. Col risultato di porci di fronte agli occhi sempre lo stesso spettacolo. Che è innanzi tutto quello di tutti gli Stati che si affrettano a biasimare certe azioni (ad esempio: i bombardamenti sulle popolazioni civili, o l'uccisione dei soldati nemici fatti prigionieri, eccetera), pur seguitando a compierle tutte le volte che le ritengono necessarie. Ma è anche quello, non meno imbarazzante, degli incredibili contorcimenti verbali in cui rimangono incagliati perfino studiosi di alto livello - e mi riferisco qui, in particolare, a quanto scrive Michael Walzer, nel suo volume "Guerre giuste ed ingiuste" - nel momento in cui provano a sostenere che i dirigenti politici che agiscono in questo modo "sono assassin(i), sebbene per una buona causa", visto che "essi devono preferire la sopravvivenza collettiva (del loro Stato) e calpestare quei diritti che si siano improvvisamente profilati come un ostacolo, (ma) non sono liberi da ogni colpa quando lo fanno".3
Bene, se questa è la situazione attuale, solidissima anche se paradossale (tutti ricordiamo, infatti, la meraviglia di Pascal per il fatto che, in campo morale "un meridiano possa decidere della verità")4 , è tuttavia necessario prendere atto che essa sarebbe destinata ad andare in frantumi nel momento in cui i diritti umani diventassero una realtà, cioè un codice non astratto ma concretamente vissuto. In una scena mondiale caratterizzata dalla loro piena prevalenza non vi sarebbe infatti più spazio per politiche estere nazionali contrapposte. Anzi, e più precisamente, non esisterebbero più delle "politiche estere": in quanto tutti i protagonisti della dialettica internazionale - che sarebbero ormai i singoli individui - modellerebbero spontaneamente i loro comportamenti sulla base di principi e di valori comunemente riconosciuti. E quindi, insieme ad un'attività ispirata unicamente agli "interessi nazionali", scomparirebbe anche la "ragion di Stato". Con la conseguenza che l'enigma della Sfinge a cui abbiamo prima accennato si dissolverebbe, e gli uomini, se volessero essere immorali, lo sarebbero secondo i loro gusti e il loro temperamento, ma non più perché costretti ad agire in questo modo da un loro "senso di appartenenza".
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Una trasformazione profonda dell'attuale assetto internazionale si presenta, dunque, come il primo effetto di un prevalere della concezione dei diritti umani. Le conseguenze di tale mutamento non si fermerebbero, tuttavia, qui. Perchè, al contrario, una modificazione non meno radicale, e perfino più dirompente, avverrebbe per quanto riguarda l'idea - che nel mondo moderno ha un chiaro valore regolativo - della "sovranità popolare". Nel momento stesso in cui attribuiamo ai diritti umani un ruolo universale è infatti il loro valore assoluto che, per quanto riguarda l'intera vita dei singoli popoli, noi concretamente affermiamo. Ma se le cose stanno così, se essi sono diventati, e devono essere riconosciuti come l'unico punto valido di riferimento, che cosa accade alla sovranità popolare?
Se noi, ritornando indietro di oltre due secoli, osserviamo la nascita delle prime dichiarazioni dei diritti dell'uomo, non possiamo fare a mano di constatare che esse sono state l'iniziativa di due popoli - l'americano e il francese - che, essendo appena usciti da situazioni non democratiche (lo stato di colonia, nel primo caso, e la monarchia assoluta, nel secondo), desideravano fissare, in questi documenti, i princìpi - di libertà e di autonomia - della loro nuova condizione collettiva, a suggello di quanto già realizzato, ma anche come baluardo contro ogni possibile pericolo di ritorno al passato.
Se, subito dopo, spostiamo lo sguardo al quadro attuale, la conclusione che dovremmo trarne è che l'esigenza da cui essi sono nati dovrebbe essere considerata, nei paesi che si sono date istituzioni democratiche, risolta. Visto che, al loro interno, le condizioni - un tempo separate - di "uomo" e di "cittadino" coincidono, e visto che la sovranità risiede ormai nel popolo, è infatti questo "popolo sovrano" che, se lo vuole, può correggere, in questo campo, tutte le distorsioni e tutte le manchevolezze. E, se non lo fa, vuol dire che non lo vuol fare, o che considera impossibile farlo.
Sostenere di poter sindacare un simile stato di cose dall'esterno - cioè avendo come unico criterio di giudizio i diritti umani - non implica quindi unicamente la affermazione di un "diritto di ingerenza" nella accezione generica del termine - per quanto riguarda, cioè, la riduzione o la soppressione della sovranità statuale - ma pone anche le basi per la sua affermazione anche in suo senso molto più concreto: vale a dire come possibilità di interferenza nel suo processo politico, attraverso la rivendicazione di un potere di decidere fino a che punto agli aspetti "formali" del suo regime democratico - lo svolgimento di elezioni libere, la presenza di una Costituzione basata sulla divisione dei poteri, eccetera - corrisponda una loro effettiva presenza. Ma - ci si deve subito chiedere - chi potrebbe assumersi un simile ruolo? E su quali basi, anche solo di conoscenza, potrebbe essere in grado di esercitarlo?
Di solito questo nodo - questo vero e proprio dilemma che deriva dalla interpretazione attualmente prevalente, ma a mio giudizio del tutto errata, in quanto "totalitaria", dei diritti umani - non viene in piena luce perché, ad essere messi sotto accusa, per la violazione di tali criteri, sono quasi sempre regimi autoritari o dittatoriali. Ma è evidente che, una volta stabilito il loro valore assoluto, il problema si dovrebbe inevitabilmente porre in termini generali. Tutti gli Stati, cioè, dovrebbero essere osservati, giudicati, ed eventualmente condannati e perfino puniti, per i loro comportamenti non conformi a tali regole. Ma - vale ancora una volta la pena di ripeterlo - da parte di chi? E con quali conseguenze?
Le difficoltà a cui ci si può trovare di fronte attraverso una simile interpretazione, e gestione, dei diritti umani sono state messe in luce, negli scorsi anni, dai tragici avvenimenti dell'America latina. Chiusosi il periodo dei colpi di stato militari e di quei veri e propri massacri che sono state le operazioni "anti-guerriglia", molti paesi di questa regione hanno infatti dovuto fare i conti con le opposte esigenze derivanti, da un lato, da un criterio di giustizia e, dall'altro, dalla necessità di una pacificazione e di una ricostruzione del tessuto nazionale. E, privilegiando la seconda, hanno ritenuto opportuno rinunciare a perseguire determinati crimini, anche gravissimi e di massa, per accontentarsi - attraverso il lavoro di apposite commissioni - di un semplice "accertamento della verità". Col risultato che lo scontro frontale tra la sovranità popolare e la falsa concezione dei diritti umani è stato evitato, perché la prima ha prevalso sulla seconda, e la sua pretesa di "totalitarismo" è stata sconfitta.
E una situazione sostanzialmente eguale si svilupperebbe - sia pure per altra via - qualora un certo numero di governi decidessero di affidare ad un organo collettivo comunemente scelto la supervisione delle loro azioni in questo campo. Anche in tale caso, infatti, ciò a cui si assisterebbe sarebbe, non l'imposizione dall'esterno di una serie di norme predefinite, ma una limitazione volontaria di sovranità: dello stesso tipo di quella che si è prodotta nella Unione Europea, al cui interno la Commissione ha il diritto di stabilire criteri vincolanti per i singoli paesi membri, ma solo perché i loro cittadini hanno dato il loro consenso alla firma di tali accordi. I quali, per di più, in nessun caso possono fornire la base per ultimatum o azioni di forza, in quanto sono destinati a rimanere in vigore solo fino a quando questo assenso rimane presente.
Per i diritti umani, specie recentemente, si è preferito imboccare, invece, una strada diversa: quella di una interpretazione, e di una forma di realizzazione, di tipo autoritario. E gli effetti di tale scelta rischiano di essere, senza esagerazione, disastrosi. Da un punto di vista politico, infatti, tale impostazione contiene in sé il crescente rischio di una strumentalizzazione di carattere "imperiale": visto che è fin troppo evidente che solo i forti possono imporre qualcosa ai deboli, mentre un procedimento inverso non è neppure concepibile. E da un punto di vista più generale - e riprendiamo così, per concludere, il filo del nostro tema centrale - essa pone le basi oggettive per una costante frizione con il principio della sovranità popolare. Frizione da cui possono discendere non solo malintesi, ma anche non pochi pericoli.
Note
1 HEDLEY BULL, The Anarchical Society, Macmillan, London, 1977, p. 152.
2 FRIEDRICH MEINECKE, L'idea della ragion di Stato nella storia moderna, Sansoni Editore, Firenze, 1997, p. 444.
3 MICHAEL WALZER, Guerre giunte a ingiuste, Liguori editore, Napoli, 1990, pp. 244-5.
4 BLAISE PASCAL, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, p. 141.
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