Il Giudice Unico
dott.ssa Carla Romana Raineri
ha emesso la seguente
SENTENZA
Nel giudizio promosso da
I LIBERALI, rappresentati e difesi da
Società Libera, con il patrocinio di
Salvatore Bragantini
contro
Il CAPITALISMO , rappresentato e difeso da
Giorgio Squinzi
Premessa:
E’ questa è senza dubbio la più difficile
sentenza che io sia stata chiamata a pronunciare
nella mia carriera di magistrato.
Le opposte tesi difensive, e le testimonianze, così
dotte, così ben articolate e suggestive, mi vedono
impreparata rispetto ad un terreno a me affatto
familiare.
Poiché, tuttavia, come Giudice, non posso sottrarmi
al precipuo compito del juris dicere, non potendo
invocare a mio vantaggio il non liquet, qualcosa
dirò, scusandomi in anticipo per la inevitabile
superficialità dell’approccio, per le inesattezze,
per i peccati di presunzione benchè incolpevoli.
Questa sentenza è resa da un Giudice della
Repubblica italiana, ma non è pronunciata nel nome
del popolo italiano.
Non vincola le parti e, oserei dire, nemmeno il
Giudice che l’ha scritta.
Non sarà letta in forma solenne e possiamo, dunque,
restare tutti comodamente seduti.
* * * * * * * *
Il tema del contendere prende le mosse dal titolo
del nostro incontro: I Liberali processano il
capitalismo
Orbene, dalla rivoluzione industriale inglese, dal
binomio Cromwell e Hume, con fasi alterne ed un’
epopea degna della migliore storiografia, l’alleanza
politica ed economica fra capitalismo e liberismo ha
percorso tre secoli abbondanti di storia abbattendo
sulla sua strada i residui del feudalesimo, le
monarchie, per quanto illuminate, le arretratezze e
le inerzie del sottosviluppo.
Ha allargato i mercati e, nel contempo le
democrazie; ha creato immense ricchezze; ha fatto
scorrere fiumi di sangue, ma ha costruito, come lo
stesso Engels ha detto, più delle piramidi d’Egitto.
La teoria del liberalismo economico si fondava, come
è noto, sul principio secondo cui gli egoismi
individuali, pur mirando al raggiungimento del
massimo profitto, promuovono comunque un fine
socialmente utile al di là delle egoistiche
intenzioni.
E’ la mano invisibile di Adam Smith: quella forza
pervasiva del mercato che coniuga domanda e offerta,
che ottimizza prezzi e valori, fini individuali e
aspirazioni collettive, puntando a un equilibrio o,
meglio, a quella “armonia” dell’economia teorizzata
da Frèderic Bastiat nella prima metà dell’ 800.
Il sistema del liberismo economico ha sempre
temperato, sul piano politico, le diseguaglianze che
il sistema capitalista naturalmente e
inevitabilmente creava nelle sue dinamiche. Lo ha
fatto attraverso la partecipazione democratica, la
redistribuzione dei redditi, la leva tributaria e,
soprattutto, il sistema giuridico delle regole.
Gli Stati Uniti, che oggi al centro della crisi
mondiale, sono stati i maggiori artefici del
liberismo economico, con quella disinvoltura,
creatività e leggerezza che consentiva loro essere
scevri da quella deriva culturale e da quella
coscienza infelice di cui l’Europa, per la sua
storia, è stata sempre carica.
Occorre ora chiedersi, e questo sembra essere
l’essenza del thema decidendum, se questa alleanza
fra liberalismo e capitalismo si sia interrotta:
quali i motivi e quali i rimedi..
Ad avviso di questo giudicante l’alleanza si è
rotta.
Il capitalismo non sembra più avere quella naturale
forza interiore di temperamento e di armonizzazione
fra interessi e risorse.
Il treno del capitalismo è deragliato ed il
liberismo “dalle regole” piuttosto che il liberismo
“delle regole” non è riuscito ad imbrigliarlo e
correggerlo, riportandolo sui giusti binari.
Si è dunque rotto il binomio liberismo-capitalismo
nato tre secoli fa.
Ma non, per la “natura in sé non liberale del
capitalismo”, come afferma il teste Monateri.
Altre sono le cause di questa rupture.
Tenterò di individuarle, per poi affrontare il tema
dei possibili rimedi.
La prima causa va, a mio avviso, rinvenuta
nel processo di “globalizzazione” e nei dirompenti
effetti che essa ha comportato.
- L’apertura dei mercati il più delle volte
svincolati da regole nazionali ha esasperato le
condotte opportunistiche;
- La de-localizzazione della produzione
(nell’impero inglese le risorse venivano
importate in Patria) ha alterato i tradizionali
equilibri del processo produttivo.
- E’sorta in modo sempre più pressante
l’esigenza delle aree periferiche più depresse
di partecipare allo stato del benessere
- La nuova “Era informatica”, principale
alleata del processo di globalizzazione, ha
accelerato in modo esponenziale la velocità di
informazione. Un tempo le ricchezze ( beni e
servizi) si spostavano con i tempi
dell’informazione; oggi l’informazione viaggia
molto più velocemente: precede, scavalca,
anticipa.
- L’informazione della nuova era informatica
ha costituito la premessa di una
virtualizzazione dei beni.
La seconda causa va rinvenuta nella crisi
del binomio finanza-capitale e nella nascita di un
capitalismo finanziario sempre più disancorato dai
beni reali sottostanti e sempre più costruito sui
modelli della scommessa e dell’azzardo.
Un capitalismo finanziario che ha raggiunto
dimensioni di gran lunga superiori al PIL mondiale.
Per secoli le banche hanno preso il danaro sulla
fiducia e prestato il danaro a rischio.
L’arte del banchiere era nella capacità di valutare
il rischio.
La finanza, un tempo, incanalava il risparmio verso
la produzione virtuosa, a sostegno dell’impresa,
oppure la proteggeva dai rischi tipici delle
attività produttive (vedi assicurazioni).
In un crescendo che parte più o meno dal principio
di questo secolo, appunto il secolo della
globalizzazione, la struttura aperta dei mercati
finanziari, la caduta dei controlli e le nuove
tecniche della finanza hanno consentito la
progressiva uscita da questo schema; hanno
determinato la crisi del vecchio equilibrio fra
rischio e responsabilità e l’apertura di una
insanabile divaricazione fra origine del rischio e
responsabilità per il rischio.
E’ così che le nuove banche globali si sono liberate
dal proprio originario rischio sui loro prestiti,
trasferendolo a terzi.
Lo hanno fatto “impacchettando” i propri crediti in
prodotti finanziari; hanno collocato instabili e
pericolosi prodotti finanziari sul mercato presso
acquirenti attratti dagli alti rendimenti, confusi
dalla complessità degli strumenti, quasi sempre
inconsapevoli del rischio che potevano così
assumere.
Nel nostro piccolo universo domestico abbiamo
assistito, già nei primi anni di questo millennio, a
tale indegno spettacolo, di cui sono stati
principali protagonisti i Gruppi Cirio e Parmalat.
Io appartengo alla VI sezione civile del Tribunale
di Milano, la sezione che si occupa delle
controversie di diritto bancario e finanziario.
Innumerevoli cause sono state introdotte dagli
investitori che hanno visto volatilizzarsi i loro
risparmi nelle obbligazioni Cirio e Parmalat e
innumerevoli sentenze sono state rese dai tribunali
italiani su queste tristi vicende.
Sono stati emessi centinaia di milioni di euro di
prestiti obbligazionari, attraverso società
finanziarie quasi tutte con sede in Lussemburgo, per
bypassare le più rigide regole dettate dalla nostra
legislazione.
Le società lussemburghesi erano scatole vuote,
create con il solo ed unico scopo di emettere
quantità immense di obbligazioni che venivano poi
collocate, attraverso consorzi di collocamento,
presso i cd. investitori istituzionali ( Banche); ma
solo apparentemente, perché le banche provvedevano
subito dopo a immetterle sul mercato dei
piccoli-medi risparmiatori, ed anzi, talvolta, ancor
prima di acquisirle, esse le avevano già vendute ai
propri clienti, alla cd. clientela retail, cioè
all’indifferenziato pubblico di piccoli investitori
assolutamente inconsapevoli del rischio che
assumevano.
Questo meccanismo ha consentito da un canto ad
alcune Banche di “rientrare” della pesante
esposizione creditoria che vantavano nei confronti
dei Gruppi Cirio e Parmalat, d’altro canto agli
intermediari finanziari di lucrare provvigioni sulle
infinite operazioni di intermediazione finanziaria
nella compravendita dei bonds. Il fiume di danaro
drenato agli inconsapevoli risparmiatori, per
contro, non è servito a salvare le aziende dalla
crisi. E’ finito nel buco nero del loro
indebitamento, spesso reso opaco dalle compiacenti
società di revisione, alcune delle quali sono
risultate essere addirittura a libro paga dei loro
controllati.
E a proposito della pregressa erogazione di crediti
da parte delle banche, ad es. a Parmalat, varrebbe
la pena di evidenziare che nessuno ha mai neppure
guardato i bilanci.
Il conto economico di Parmalat risultava in
equilibrio perché indicava l’esistenza di un conto
corrente negli USA con depositi per 5.000.000.000 di
dollari.
Come provocatoriamente detto da un mio collega , già
P.M. nella procura di Milano (P. Davigo), se
qualcuno avesse guardato quei conti si sarebbe
dovuto chiedere: “ma se ha cinque mld di dollari su
un conto, perché chiede un prestito?”
Nessuno ha fatto questa domanda perché nessuno ha
guardato i bilanci.
E nessuno li guarda perché tutti sanno che sono
falsi.
La differenza fra un operatore finanziario ed un
giocatore di poker dovrebbe essere che il primo
guarda i bilanci, il secondo (se è bravo) guarda in
faccia l’altro giocatore.
Smettendo di guardare i bilanci gli operatori
finanziari sono diventati giocatori (neppure tanto
bravi) di poker.
Nel più vasto orizzonte mondiale, i cd. sub prime,
prestiti a rischio concessi negli USA e poi fatti
circolare per il mondo con i rischi connessi e
tristemente noti sono stati, come ben evidenziato
dalla teste Kostoris, un altro esempio di fuga dal
rischio e di corsa ai profitti.
La fuga dal rischio e la corsa ai profitti è
avvenuta con innumerevoli altri esotici strumenti:
bonds, vehicle, asset-backed commercial papers,
collateralized debt obligations, derivates, hedge
founds.
Diversamente da quanto è avvenuto in Asia dove lo
strumento del debito è stato utilizzato in modo
tradizionale per finanziare la costruzione di
industrie nuove, l’Occidente, in un crescendo che è
divenuto spettacolare in questi ultimi anni, ha
utilizzato tale strumento per finanziare a debito i
consumi o per speculare sul valore di industrie già
esistenti; non per creare ricchezza nuova.
E’ così che le grandi banche, divenute insieme
universali e irresponsabili, replicando e
moltiplicando artificialmente i valori sino
all’ennesimo grado, beneficiando di più o meno
solide coperture assicurative e certificazioni
contabili, della stima positiva della agenzie di
rating, hanno costruito bilanci attivi per centinaia
di miliardi di dollari o di euro, su cui hanno
emesso derivati per migliaia di miliardi di dollari
o di euro.
Globalizzazione e finanza hanno subito cominciato a
vivere in simbiosi.
La globalizzazione, con l’apertura su vasti spazi
dei mercati e con la caduta dei vecchi confini e dei
vecchi controlli, ha forgiato la nuova finanza.
La nuova finanza, consentendo la divisione del mondo
fra Asia produttrice di merci a basso costo e
America consumatrice a debito, si è sempre più
allontanata, con una accelerazione inarrestabile,
dai numeri concreti dell’economia reale (così si
esprime Tremonti nel suo libro “La paura e la
speranza”).
Dunque anche la finanza si è avvitata su se stessa:
scommesse al quadrato, complicati e oscuri algoritmi
Si è venduto il rischio, impacchettato rischio e
volatilità in un gioco spregiudicato e al fine
catastrofico.
Un gioco di rimando all’infinito che ha amplificato
il debito, lo ha allontanato sempre più
nell’illusione che il tempo non si rapprendesse mai,
che nessuno pretendesse un reddere rationem.
Stiamo ora assistendo al tracollo di una “bolla
finanziaria” composta da decine di migliaia di
miliardi di dollari fra mutui, titoli emessi sui
mutui e derivati finanziari.
La tragica conseguenza è la caduta della spesa al
consumo provocata dai licenziamenti, la perdita di
valore delle abitazioni, la crescita economica verso
lo zero, la perdita di posti di lavoro e delle
entrate fiscali.
Tremonti, nel suo recente libro, scrive: il crollo
del muro di Berlino, segna la crisi sia del
comunismo, sia del liberismo.
Sostituiti entrambi da una ideologia nuova: il
mercatismo.
Il comunismo ha perso perché ha perso. Ma anche il
liberismo ha perso perché, subito dopo aver vinto,
ha perso la sua specifica identità storica: ha
celebrato insieme la sua vittoria e la sua
sconfitta.
Non sarei così tragicamente pessimista.
Sta bene che il comunismo abbia perduto e,
auspicabilmente, per sempre. Ma - quanto al
liberismo- desidero rivendicare quanto meno
l’ottimismo della “volontà” se non mi è concesso
invocare quello della “ragione”.
Prima di affrontare il tema dei possibili rimedi
vorrei, però, confrontarmi con la brillante, quanto
intrigante, provocazione di Giorello.
Mi sembra di capire che l’illustre filosofo si
chieda se l’economia possa considerarsi una scienza,
atteso che i teorici (cito testualmente):
- hanno spacciato come realistica una visione
preconcetta del sistema, accettando come
fatalità ineluttabili alcuni aspetti del
contingente
- hanno accettato come scientifica tale
visione, prendendo come dogmi le elucubrazioni
mentali degli autori che hanno giustificato
teoricamente quella realtà contingente
- hanno preteso come oggettiva questa stessa
visione, in quanto conforme alle idee e agli
interessi che l’establishment spacciava per
sacrosanti.
Ciò è successo, ma credo giovi sul punto
premettere alcune considerazioni.
L’economia parte dal cd. “problema economico”: che è
la scarsità delle risorse rispetto ai bisogni.
Se le risorse fossero infinite il problema economico
non avrebbe ragion d’essere.
L’analisi deve dunque spostarsi dal “problema
economico” al “principio economico”:
l’ottimizzazione delle risorse rispetto ai fini,
individuali e collettivi.
Qui si inserisce il momento teorico. Se da una parte
l’esplicitazione di questo principio economico è di
fatto un’analisi della storia degli eventi, d’altro
canto attraverso l’individuazione di principi
nomologici dei meccanismi dell’economia si
costruisce una vera e propria scienza: del fare, del
prevedere, del governare.
A chi chiedesse se la scienza economica è una teoria
dell’essere o del dover essere si potrebbe
rispondere che le leggi teoriche, quelle che hanno
carattere nomologico, quelle che attingono al
“principio economico” così come lo abbiamo definito,
sono quelle del dover essere, dell’ES MUSS SEIN
(anche Beethoven nell’ultimo movimento dell’ultimo
quartetto ha fatto ricorso a tale concetto) e hanno
carattere “universale”.
I tanti comportamenti, che pur chiamiamo leggi, ma
che non sono altro che modelli di condotta, hanno il
limite dello storico e del contingente; esse non
hanno carattere di universalità e finiscono per
essere gli episodi di una biografia degli eventi:
sono le leggi dell’ESSERE: governate dagli
interessi, dagli individualismi, dall’establishment,
da tutti gli egoismi di cui è affollata la nostra
società.
Ma al di sopra delle istituzioni mutevoli e
transeunti vi è tuttavia l’esigenza della
ECONOMICITA’ che è permanente.
E’ questo il dato universale da cui trae
legittimazione la scienza economica e validità
immutabile il suo metodo.
E d’altro canto, appare riduttivo pensare che non ci
sia scienza se non c’è previsione.
Anche in fisica e in chimica alcune leggi hanno solo
contenuto esplicativo e non predittivo. Ma non per
questo è revocabile in dubbio la loro scientificità.
Non è la scienza economica, dunque, che ha tradito.
Ha tradito la pseudo-scienza economica del
contingente ed hanno tradito i suoi “falsi profeti”.
Le censure del filosofo vanno invece certamente
condivise sotto un diverso profilo.
Finché l’economista resta ai confini della sua
scienza, considera i sistemi dall’esterno, ne
esamina la loro struttura, giudica la loro coerenza
formale, può al più giustificare quello che accade
e, non sempre, prevedere.
Occorre invece che l’economista non guardi più i
sistemi dall’esterno, ma li penetri nella loro
essenza, si renda conto dei loro fini e su questi
dica la sua opinione.
La scienza economica del dover essere può ancora
svolgere il suo ruolo utopico e di indirizzo a patto
che introduca una visione più matura del “principio
economico”, che si apra ai concetti di cooperazione
piuttosto che di competizione, di minore
diseguaglianza di condizioni, di trasparenza, di
simmetria informativa, di equità; deve mirare alla
efficienza del sistema, alla “sostenibilità” del suo
sviluppo, alla soddisfazione dei bisogni autentici,
compresi quelli della felicità.
(Mi sembra che questo sia anche il pensiero e
l’auspicio del teste Kostoris).
Questa nuova scienza economica consentirebbe ancora
al capitalismo di crescere, facendolo convergere
verso punti di equilibrio più maturi che coinvolgano
collettività sempre più allargate, che garantiscano
davvero un vantaggio per l’intera collettività.
Nel 1949, John Nash, ancora studente a Princeton,
elaborava una ipotesi di equilibrio come la
situazione nella quale il gruppo si viene, comunque,
a trovare se ogni componente del gruppo fa ciò che è
meglio per sè, cioè se mira a massimizzare il
proprio profitto a prescindere dalle scelte degli
avversari.
Ma non è detto che l’equilibrio di Nash sia la
soluzione migliore per tutti, l’ottimo paretiano.
Oggi sappiamo che se ogni componente del gruppo fa
ciò che è meglio per sé, il risultato cui si giunge
è un equilibrio di Nash ma non necessariamente un
ottimo di Pareto: è quindi possibile, ed anzi molto
frequente, che se ogni agente persegue il proprio
interesse personale, non si giunga ad una
allocazione efficiente delle risorse.
Il dilemma del prigioniero fornisce un valido spunto
per confrontare i due concetti di equilibrio di Nash
e ottimo di Pareto e per comprenderne l’applicazione
in economia.
Poiché tuttavia spesso la razionalità collettiva
contrasta con quella individuale, è nella maggior
parte dei casi necessario un accordo vincolante tra
i giocatori ( e quindi una istituzione che vigili su
tale accordo) ed una sanzione nei confronti di chi
non lo rispetta, riducendo quindi il profitto del
singolo se esso si allontana da strategie che
garantiscano a tutti il miglior risultato possibile.
Dunque : Le Regole
Il vero liberismo oggi è nelle regole.. non è
lasciare il mercato a se stesso, non più laissez-
faire.
La mano “invisibile” deve rendersi “visibile” e
impedire al capitalismo di far male a se stesso.
E’ però, innanzitutto, necessario un principio
informatore di queste nuove regole: una nuova
ideologia in grado di attribuire al mercato una sua
propria ragion d’essere, un nuovo codice universale,
una nuova legge capace di modellare la storia in
divenire.
Può essere certamente condiviso l’assunto di
Tremonti secondo cui per la difesa dell’Europa non
basta il Pil, ma serve un Demos e un Ethos, perché
senza una identità ed un nuovo ordine morale si
andrà incontro al declino e al conflitto sociale.
Ma anche la politica nel senso platonico della
tèchne è sempre più necessaria.
Non possiamo farci sedurre, solo perché il
capitalismo ha mostrato la sua debolezza, da vecchie
ideologie collettivistiche e stataliste, da economie
pianificate, da decisori burocratici.
L’economia dello scambio non si tocca.
Occorrono tuttavia Regole: nuovi strumenti di
intervento e, soprattutto, nuovi modelli di
organizzazione. Un ventaglio di potestà normative e
amministrative intestate ad una pluralità di
Authorities, il comune denominatore delle quali è
costituito, sul piano soggettivo, dall’indipendenza;
che agiscano in una posizione di terzietà, mediante
l’impiego di poteri di «aggiudicazione», la cui
neutralità (M. Manetti) viene, spesso, associata,
almeno sul piano materiale, proprio alla funzione
giurisdizionale .
Non si tratta, come è ovvio, di giudici speciali,
vietati dalla carta costituzionale (art. 102, comma
2, Cost.). Il loro ruolo deve essere di tipo
«arbitrale».
Le azioni correttive dei Regolatori si prefiggeranno
di assicurare l’osservanza delle regole, rimuovendo
le eventuali distorsioni, ostative al raggiungimento
-o al mantenimento- di una efficiente allocazione
delle risorse.
La public policy deve fungere da (mero) strumento di
vigilanza e di controllo: la mano visibile dei
Regolatori si sostituirà a quella invisibile dei
mercati infrangendo il dogma della incondizionata
fiducia in un sistema governato dal laissez-faire;
ossia nella capacità di autoregolazione dei mercati
(J.M. Buchanan, R.H. Coase, M. Friedman, F. von
Hayeck).
L’esercizio di questi poteri in modo neutrale, nel
quadro delle reti che collegano le Autorità
nazionali a quelle europee (ad es.: Commissione
europea, BCE, CESR, Gruppo dei regolatori europei
per il gas e l’elettricità), consentirà il
perseguimento di obiettivi condivisi, nell’ambito
delle politiche comunitarie, avrà il compito di
elidere -o di correggere- gli eccessi e le
turbolenze dei mercati; infonderà stabilità ed
equilibrio al sistema economico e finanziario: tutto
ciò in un contesto di valorizzazione - e non di
negazione - di quelle potenzialità che il sistema
improntato al libero scambio è in grado di
dispiegare.
La fiducia nella Regolazione e nei poteri che la
esercitano presuppone la riaffermazione del primato
del diritto (cito G. Rossi). Ma non solo.
Rappresenta anche una sorta di vaccinazione, intesa
a fronteggiare e, soprattutto, a scongiurare i virus
di una globalizzazione pervasiva, che ha invaso il
pianeta, contaminando larga parte del tessuto
economico e, ancor più, di quello finanziario (Stiglitz).
In questa stessa prospettiva, J.M. Keynes, negli
anni venti del secolo scorso, nell’anticipare la
teoria dei poteri neutrali di Carl Schmitt (1930),
affidava ad interventi di tipo regolativo la fine
del laissez-faire (The End of the Laissez-Faire,
1926), con la stessa energia con cui egli esprimeva
severi giudizi su quello che definiva il «socialismo
marxista».
La fiducia in un modello di enforcement improntato
ai necessari checks and balances (Locke, Hume)
impone conclusivamente di esprimere, in virtù della
regola del libero convincimento del giudice (art.
116, I alinea, c.p.c.), un affidavit a favore del
sistema capitalistico, pur nei limiti e nei sensi di
cui in motivazione.
P.Q.M.
Il Giudice Unico, definitivamente pronunciando,
ogni altra domanda ed eccezione assorbita e/o
disattesa
ASSOLVE
il capitalismo, assegnandogli, pur tuttavia, un
amministratore di sostegno nei limiti e con le
finalità di cui in motivazione;
Così deciso in Milano, il 30.11.09
Il Giudice Unico
dott.ssa Carla Romana Raineri
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