|
LA SOCIETÀ LIBERA E I POTERI NEUTRI
Prima Edizione Dicembre 1998
Direttore Collana: Fabrizio Garavaglia
Fondazioni non profit in Italia - Pier Giuseppe Monateri
Neutralità fondazioni e pluralismo istituzionale - Fabio Roversi Monaco
Giudiziario, potere "neutro" - di Giovanni Bognetti
Indipendenza della magistratura e sindacalismo giudiziario - di Carlo Guarnieri
Le autorità indipendenti tra amministrazione e neutralità - di Vincenzo Caianiello
Autorità amministrative indipendenti - di Giuseppe De Vergottini
Autorità indipendenti e mercato - Alberto Pera
Né competizione, né cooperazione - di Luigi Compagna
Poteri neutri e dimensione della mano pubblica - Angelo Maria Petroni
Parlamento e poteri neutri - Massimo Teodori
La pubblicazione di questo volume dà inizio alla collana dedicata agli atti dei Convegni di Società libera. È unopportunità che sottoponiamo allattenzione di quanti sono interessati a tematiche culturali non distanti però dalla quotidianità del dibattito politico.
Società libera vuole rappresentare un riferimento per chi condivide la necessità di riflettere sia su cosa una società liberale richieda per essere sostanzialmente tale, sia sulle difficoltà che la cultura liberale incontra nellaffermarsi nelle società occidentali. In futuro andremo concretizzando, sempre più, iniziative culturali, anche di cultura politica, senza voler essere per questo parte politica, seguendo due precisi indirizzi.
Innanzitutto ci occuperemo di problematiche che, a nostro avviso, rappresentano snodi cruciali da affrontare in una società che voglia caratterizzarsi per un elevato livello e per coerenti elementi di liberalismo.
Secondariamente daremo vita a momenti di confronto, bene attenti però a non sminuire il dibattito in esposizioni di maniera in cui emergono più le presenze che la tensione sui contenuti.
Siamo convinti che pur tra una pluralità e diversità di posizioni, debbano comunque evidenziarsi indicazioni utili ad una maggiore comprensione e possibilmente alla risoluzione, a nostro modo di vedere, delle tematiche individuate.
E il dibattito sui Poteri Neutri ne è stato il primo esempio.
Vincenzo Olita
Milano, Dicembre 1998
Torna all'inizio del documento
Fondazioni non profit in Italia
Pier Giuseppe Monateri
Tre questioni debbono essere affrontate. Dapprima, si racconterà una storia americana, che si suppone in qualche modo liberale. In seguito, si racconterà una storia italiana incentrata sulle fondazioni bancarie, nella loro evoluzione dalla legge Amato al progetto Ciampi/Visco attualmente in discussione al Senato. Infine, si cercherà di trarre alcune riflessioni di fondo.
La storia americana è quella con cui retoricamente si affronta sempre il discorso sulle fondazioni bancarie: in ogni convegno sulle fondazioni bancarie, il primo spunto è sempre costituito dalle non profit americane. La storia di queste associazioni si dipana velocemente in tre fasi: quella del paradiso delle fondazioni, quella dei controlli federali ed una terza fase, quella attuale, in cui si tenta di collocare tali enti in un framework definito rispetto ai loro intrecci con il business della politica. In America quello delle fondazioni non profit è effettivamente definito come un terzo settore fra il Government (corrispondente a ciò che in Italia si chiama Stato) ed il business privato. Questo settore è ormai divenuto quasi importante quanto le corporations, ossia le grandi società per azioni. Se nel 1930 vi erano soltanto trecento fondazioni di questo tipo negli U.S.A., nel 1966 esse erano già seimila ed appena in due anni, nel 1968, erano diventate 30.200. La principale di esse, la Ford, allepoca dei controlli federali aveva un patrimonio stimato tra i 3 e i 6 miliardi di dollari.
Anche il business italiano è valutabile in cifre ragguardevoli: secondo il relatore della legge in discussione al Senato, il giro di affari attuale si aggira sui 33 mila miliardi di lire e, fino a qualche anno fa, si toccava la soglia dei 45 miliardi.
In estrema sintesi, la prima fase, in cui le fondazioni prendono il sopravvento nel mercato americano, dura fino al 1954. Essa è caratterizzata da unesenzione fiscale praticamente completa dei proventi degli enti non profit, e dal fatto che i donatori delle fondazioni potevano dedurre nei limiti del 15% del loro reddito quanto donato ad una fondazione.
All epoca, vi sono almeno due modi alternativi per definire le fondazioni bancarie o non profit. Secondo il modello adottato dallo stato americano dellOhio, sono fondazioni quegli enti che per statuto non distribuiscono utili ai soci. Tale definizione coincide grosso modo con quella presente nel progetto Ciampi/Visco attualmente in discussione al Senato. Secondo il modello adottato dallo stato di New York, le fondazioni sono definite in funzione delle attività che esse svolgono, siano esse la prevenzione della crudeltà nei confronti degli animali randagi o la ricerca sul cancro.
Ci si imbatte di frequente nel seguente meccanismo: una società madre (corporation) produce una fondazione figlia in cui essa convoglia tutti i propri proventi. In Italia, al contrario, sulla base della legge Amato del 1990 sono le fondazioni a figliare società per azioni: si tratta dei cosiddetti enti conferitari cui viene conferita unazienda bancaria.
Tornando allAmerica, sulla base del meccanismo madre-figlia, le fondazioni non profit divengono sin da subito strumento base di gestione degli affari e si intrecciano con la politica, non senza lavallo delle corti americane. In un caso del 1938 deciso dalla Corte dAppello Federale del secondo circuito (New York), si giunge ad applicare il regime fiscale favorevole sopra indicato persino ad una fondazione che possedeva il 51% di una corporation. Il caso costituisce un pericoloso precedente che porta a vari tipi di abuso di questo modello giuridico: nel 1951, ad esempio, la Corte Federale del terzo circuito è chiamata a pronunciarsi in merito allo status giuridico della più grande società produttrice di pasta e farinacei presente sul mercato U.S.A., la Muller Maccaroni, posseduta al 51% da una fondazione che per statuto devolve i propri proventi alla Facoltà di Diritto della New York University .
I dubbi sul sistema vigente, al di là degli abusi, derivavano da una questione focale: la non profit, non distribuendo utili, reinveste tutto, trovandosi così in posizione per così dire avvantaggiata sul mercato rispetto alle società commerciali.
..
Torna all'inizio del documento
Neutralità fondazioni e pluralismo istituzionale
Fabio Roversi Monaco
Fino a quindici anni fa, parlare di fondazioni significava parlare di strutture private nel senso della piena autonomia gestionale e decisionale dellente. Oggi, parlare di fondazioni bancarie, di authorities, significa riferirsi a poteri certamente non neutri rispetto alla politica.
Le autorities vengono oramai costituite per sistemare le persone in posti chiave ed usarle, e il discorso vale soprattutto per le fondazioni bancarie. Se in un futuro queste acquisteranno quella indipendenza auspicata da molti, sicuramente oggi è ben difficile sostenere che di poteri neutri si tratti. Certamente, esse vanno rese neutre, e qui vorrei spezzare una lancia brevissima, piccolissima, a favore delle casse di risparmio, almeno delle casse di risparmio - associazione, per le quali ho partecipato alla preparazione del quesito referendario che prevedeva la nomina dei consiglieri di tali enti da parte dei presidenti delle assemblee e non direttamente dallo Stato.
Occorre considerare che la spinta verso laffermazione del principio per cui tutto ciò che è collettivo è pubblico e tutto ciò che è pubblico è statale, è una spinta che nel nostro Paese si è protratta per un secolo, probabilmente di più. È quindi difficile pretendere che in poco tempo strutture anche caratterizzate dallautonomia privata come possono essere le fondazioni nelle associazioni si manifestino effettivamente indipendenti in un sistema che ha sempre cercato di comprimerle vedendole con un occhio di sospetto. Anche lo Stato liberale, in fondo, assunse tale atteggiamento quando fu deciso di effettuare une verifica generale degli scopi delle fondazioni.
Cè quindi una lunga strada da percorrere per affrancarsi da vecchi vincoli. Difficilmente, allo stato attuale, le fondazioni possono essere considerate poteri neutri e soprattutto possono essere assimilate a strutture come le authorities o la magistratura, dove la funzione super partes di controllo è astrattamente così evidente. Certo, tutte queste strutture sembrano avere una caratteristica comune: esse non rispondono a nessuno. Il privato risponde allimprenditore, limpiegato pubblico spesso non risponde a nessuno ma è comunque inserito in unorganizzazione dotata di regole molto strette. Le fondazioni in realtà non rispondono a nessuno pur avendo una funzione così è delicata. Abbandonando il tema dei poteri neutri e venendo alle fondazioni in generale, si fa notare come esse sono espressione di atti di autonomia privata sia quando assumono la caratteristica del patrimonio destinato ad uno scopo, sia quando hanno una caratteristica intrinseca associativa: più persone si associano ponendo in essere più atti di autonomia privata.
Nei testi si dice che le fondazioni hanno finalità di pubblica utilità. Ebbene, se cè unespressione da evitare questa è proprio quella della pubblica utilità: trattasi di un concetto ambiguo ed equivoco che, nel nostro Paese in particolare, è in continuo mutamento, in continua evoluzione. Lesempio della legge sullistituzione di assistenza beneficenza pubblica o il caso delle casse di risparmio (soprattutto quelle associative) sono casi emblematici. In questultima fattispecie, esisteva storicamente una strada italiana (forse europea) per la creazione di strutture non profit. Nel corso dellOttocento, tutto ciò che aveva attinenza al singolo e al singolo che si associava ad altri singoli per individuare obbiettivi di interesse comune di interesse collettivo realizzando iniziative effettive, tutto ciò è stato rapidamente spostato nel settore del pubblico e dunque statale. Il motto era: lo Stato, sintesi di tutto ciò che è pubblico e tutto ciò che attiene allinteresse collettivo, deve essere possibilmente gestito dallo Stato o altrimenti strettamente controllato. Nel settore della sanità, dellassistenza, dellistruzione, delle casse di risparmio, numerosi sono gli esempi di questopera di trasferimento, portata avanti in larga parte dal Crispi e da altri dopo di lui. Si esprimeva la volontà di garantire nel nostro ordinamento un primato dello Stato. Il risultato è stato un trasferimento di funzioni, di patrimoni, talvolta di compiti con una rete di controlli su questo tipo di istituzioni che non le ha rese né migliori, né più forti, né più indipendenti.
..
Torna all'inizio del documento
MAGISTRATURA
Giudiziario, potere "neutro"
di Giovanni Bognetti
Vorrei chiarire in che senso il potere giudiziario può e dovrebbe essere un "potere neutro", e vorrei farlo fuori da ogni polemica politica legata a circostanze contingenti ed esclusivamente ai fini di una corretta impostazione teorico culturale del discorso.
Conviene subito precisare che oggi il potere giudiziario non può più essere "neutro" alla maniera che si auspicava nel quadro della classica divisione liberale dei poteri, quella di Montesquieu. In quel quadro, il giudice doveva essere il semplice, fedele "portavoce della legge" "la "bouche de la loi"): di una legge a lui pre-data, che egli doveva limitarsi a "conoscere' nel suo contenuto e ad applicarla meccanicamente ai fatti del caso sotto giudiziario. Questo ideale del giudice puro veicolo della volontà legislativa non era patrimonio del solo liberalismo giuridico europeo: lo troviamo espresso anche in America, nelle sentenze della Corte Suprema ottocentesca e del suo grande capo, John Marshall. Era un ideale non mai realizzabile per intero, ma non del tutto incongruo in ordinamenti che, effettuata la codificazione del diritto (sul continente europeo) e il consolidamento della Common Law (in Inghilterra e in America), restringevano al minimo l'incidenza della legislazione speciale nuova: cosicché il diritto poteva davvero apparire al giudice un sistema normativo precostituito, compatto e stabile, e chi lo applicava un operatore non chiamato a compiere scelte discrezionali di integrazione e di adattamento. L'ideale poteva in qualche moto reggere nel contesto di uno stato "minimo" o "astensionista, quale era lo stato liberale dell'Ottocento. E' diventato francamente anacronistico in presenza dello stato "interventista" del nostro secolo, che sforna quotidianamente e a valanga norme su norme e dà vita a un diritto rassomigliante piuttosto a un grande fiume in perenne, rapido movimento. Qui l'interprete applicatore non può materialmente non essere un accomodatore di flutti che si accavallano in confusione e spesso confliggono tra loro, e nel far ciò non può non compiere scelte a valenza in ultima analisi politica. La "neutralità" sognata da Montesquieu e da Mashall - intesa come rigorosa astensione giudiziale da operazioni di sviluppo discrezionale del diritto - è divenuta macroscopicamente impossibile. Lo è divenuta tanto più perché in tutti gli ordinamenti - salvo quello inglese - sono state in aggiunta adottate Costituzioni scritte ricchissime di formule normative generiche e elastiche, capaci d'esser riempite a volontà di contenuti particolari diversi. E spetta al Giudiziario, in definitiva, scegliere quei contenuti e farne fluire - ai vari livelli e con vari effetti - le conseguenze.
Si può auspicare - come io auspico - che lo stato contemporaneo restringa la sfera dei suoi interventi. Tuttavia, pensare che esso possa nel corso della nostra generazione ritornare alle dimensioni dello stato liberale classico è pura utopia. Per questo io preferisco in genere qualificarmi, più che liberale, "neoliberale". e per questo il recupero della "neutralità" montesquieniana da parte dei nostri giudici mi pare, al presente, un sogno del tutto fuori portata.
Queste osservazioni sul carattere intrinsecamente "politico" (in senso alto) del diritto giurisprudenziale sviluppato dalla attività giudiziaria possono valere, mutati mutandis, anche e in particolare con riguardo alla attività della magistratura indagante e requirente. Non è seriamente sostenibile una interpretazione dell'art. 112 della Costituzione che, facendo perno sulla obbligatorietà della azione penale, voglia far credere che le operazioni dirette a far scattare la repressione penale non siamo guidate da valutazioni discrezionali e selettive. Lo sono per necessità, non foss'altro che per la massa enorme delle notizie di reato che si accumulano sui tavoli delle procure, anche in rapporto con la massa enorme delle normative presiediate da sanzione penale al cui rispetto si dovrebbe vegliare.
Alla "neutralità" liberale-classica del giudice (e del magistrato requirente) si deve dunque per forza rinunciare. Ma questa conclusione non vuol dire abbandono totale dell'idea di un giudiziario potere "neutro", nel quadro dell'attuale stato interventista e "sociale".
Intanto, i giudici (e i magistrati indaganti) devono rimanere sicuramente "neutri" di fronte al caso concreto che trattano, nel senso del non lasciarsi influenzare da personali simpatie o antipatie per i soggetti o le situazioni particolari coinvolte nel caso. Al Giudiziario spetta sviluppare, anche con valutazioni di natura storico-politica, l'interpretazione del dato normativo e fare la scelta di una tra le varie strategie possibili di repressione penale. Ma, effettuato lo sviluppo interpretativo e la scelta strategica in termini generali, l'indirizzo generale deve poi venir applicato imparzialmente ai singoli casi, senza deviazioni dettate da considerazioni strettamente contingenti o, peggio, da solidarietà o da idiosincrasie partigiane. Questa "neutralità" è essenziale alla preservazione del principio che "la legge è eguale per tutti".
Ma la problematica della neutralità del potere giudiziario ha anche altre, e più delicate e difficili, implicazioni.
In tutto il mondo occidentale si continua giustamente a volere la magistratura - voglio dire quella giudicante - composta da giudici inamovibili e indipendenti, quantunque si sia ormai dappertutto ben consapevoli del carattere intrinsecamente "politico" degli sviluppi che essi imprimono al diritto con la loro giurisprudenza. Sennonché, questa consapevolezza genera nei nostri ordinamenti alcuni problemi d'ardua soluzione.
Torna all'inizio del documento
Indipendenza della magistratura e sindacalismo giudiziario
di Carlo Guarnieri
Non è facile intervenire dopo il professor Bognetti perché molte delle cose dette dal prof. Bognetti mi trovano ampiamente consenziente. D'altra parte cercherò quindi di glossare, di aggiungere qualcosa toccando qualche tema che è stato solo accennato in precedenza e magari soffermandomi un po' di più sull'Italia. Indubbiamente, il caso dell'Italia, anche se rientra nei regimi liberal-democratici, presenta anche qualche peculiarità. Un indizio può esserci dato da un dato recente come un sondaggio dell'Euro-barometro che ci mette come paese all'interno dell'Unione Europea con il minor grado di soddisfazione per il servizio giustizia; abbiamo solamente l'8% degli intervistati che rispondono di essere soddisfatti dell'amministrazione della giustizia in Italia. Tutti gli altri paesi si collocano un pochino meglio, con i paesi nordici che risultano avere poi le percentuali più elevate.
Il punto su cui vorrei soffermarmi fa riferimento al titolo di questo convegno "I poteri neutri". Riflettendo su che cosa possa significare oggi neutralità, indubbiamente bisogna partire dal dato di fatto che il professor Bognetti prima ha sottolineato cioè il fatto che ormai la funzione giudiziaria non può più essere considerata una funzione di tipo meccanico-esecutorio, nel senso che le trasformazioni di lungo periodo dei nostri assetti politici rendono questa visione così poco corrispondente alla realtà da non essere praticamente di nessun aiuto. Detto questo, esiste un elemento che distingue in maniera caratteristica la funzione giudiziaria rispetto ad altre funzioni ed è quella che io chiamerei più che neutralità, terzietà o imparzialità come appunto estraneità e apparenza di estraneità rispetto alle concrete parti in gioco. Ricordiamoci che anche tutta l'antropologia giuridica ci insegna come l'imparzialità sia un elemento fondamentale, soprattutto l'apparenza di imparzialità, per assicurare un'efficace e pacifica risoluzione della controversia. Comunque, al di là delle trasformazioni che abbiamo visto hanno interessato i nostri paesi, il problema italiano, è un po' la discrasia fra l'assetto della nostra magistratura così come è presente nella Costituzione e le trasformazioni che si sono verificate in questi anni, in parte anche dovute proprio al tipo di regime politico che si è affermato in questi 50 anni. In altre parole, noi abbiamo ancora una magistratura, sia nella Costituzione sia in tutte le norme che regolano il suo assetto, di tipo burocratico, costruita come un corpo di funzionari della pubblica amministrazione, funzionari dotati di uno status particolare e di garanzie particolari, nel caso italiano di garanzie molto forti, ma sostanzialmente reclutati su base tecnica. Questo era un assetto che poteva andare bene fin quando la magistratura ha potuto essere rappresentata come un non potere cioè come un corpo chiamato a svolgere funzioni di tipo esecutorio. La realtà, come voi sapete oggi è diversa, non solo perché le funzioni, il carattere della funzione giudiziaria è cambiato, ma anche perché negli ultimi quarant'anni l'assetto della magistratura è stato fortemente trasformato. A partire dal '59 il vecchio legame fra magistratura e governo, fra magistratura ed esecutivo è stato sostanzialmente distrutto. Nello stesso tempo si è cancellato il vecchio assetto gerarchico, il vecchio assetto per cui il magistrato entrava giovane all'interno di un corpo e poi seguiva una carriera con valutazioni ad opera di superiori gerarchici, che appunto dovevano valutare le capacità professionali del magistrato. Anche questo elemento è stato sostanzialmente cancellato e oggi ci troviamo di fronte a una situazione in cui un corpo di magistrati, sempre reclutato nel modo in cui dicevo prima, si auto-amministra attraverso un Consiglio Superiore della Magistratura i cui due terzi sono eletti direttamente dai magistrati.
Torna all'inizio del documento
AUTHORITIES
Le autorità indipendenti tra amministrazione e neutralità
di Vincenzo Caianiello
1. L'introduzione nel nostro ordinamento di organismi che sono stati di volta in volta definiti: amministrazioni indipendenti, autorità indipendenti, Authorithy, autorità regolatorie, garanti, ha posto problemi non solo definitori, ma soprattutto di collocazione degli organismi stessi nell'ambito della organizzazione dei pubblici poteri e di qualificazione delle relative funzioni.
Problemi questi ultimi che non rispondono soltanto ad esigenze classificatorie, ma che si riflettono sul piano concreto sui temi della responsabilità e della giustiziabilità degli atti emanati da tali organi. Sono questi i temi che hanno attirato fino ad oggi per lo più l'attenzione della dottrina giuridica, registrando opinioni contrastanti rispetto alle quali è allo stato difficile prendere decisa posizione.
L'argomento è stato oggetto di attenzione anche al di fuori della dottrina giuridica essendosi talvolta interrogati, anche in sedi istituzionali sulle ragioni del recente proliferare di tali figure, degli emolumenti che vengono previsti per coloro che sono chiamati a rivestire quelle cariche, della possibile inutilità di alcuni di quegli organismi.
Va altresì registrato che in sede di progettata revisione della carta costituzionale, nello schema di riforma licenziato dalla commissione bicamerale istituita con legge costituzionale n. 1 del 1997, era stato introdotto l'articolo 109 il quale prevedeva al primo comma che "Per l'esercizio di funzioni di garanzia o di vigilanza in materia di diritti e libertà garantiti dalla Costituzione la legge può istituire apposite autorità".
Questa progettata previsione, superata al momento dal felice tramonto della bicamerale, aveva fatto porre l'interrogativo sulle ragioni per cui si fosse avvertita l'esigenza di prevedere in Costituzione la possibilità della istituzione di questi organismi, una volta che, fino ad ora, ciò era stato possibile nonostante la mancanza di ogni previsione a livello costituzionale. E la risposta che si è data all'interrogativo è che siano possibili due spiegazioni: che la norma abbia voluto legittimare la sottrazione delle Autorità, quali organi amministrativi, dall'ambito governativo e/o la sottrazione dei loro atti in tutto o in parte dal sindacato giurisdizionale. Insomma una autorizzazione data al legislatore ordinario di sciogliere i due principali problemi che, come si vedrà, si presentano in ordine all'argomento.
La disegnata previsione aveva anche suggerito, di fronte alla diversa tipologia delle Autorità, di porre all'attenzione una possibile diversificazione fra esse, essendo stato presentato un emendamento diretto a distinguere due categorie: quella delle Autorità garanti di diritti e di libertà, quella delle Autorità aventi compiti di vigilanza in ordine ad attività economiche.
La vicenda di cui ci occupiamo ha avuto inizio nel nostro Paese circa un quarto di secolo fa, quando fu istituita con d.l. 8 aprile 1974 n. 95, convertito in legge 7 giugno 1974 n. 216, la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) Chi scrive fu il primo ad esaminare all'epoca le caratteristiche dal punto di vista dei profili pubblicistici, ponendosi subito il problema del coordinamento di questa nuova forma di "amministrazione" con quelle tradizionali e cercando di individuare la sua posizione istituzionale, nonché l'ambito e i limiti della sua autonomia nei confronti del Governo. Come si avvertì fin da allora ciò che appariva con immediatezza come elemento distintivo di quella nuova figura soggettiva di natura pubblica, rispetto alle amministrazioni tradizionali, erano gli speciali requisiti da possedersi dalle persone che dovevano essere chiamate a comporre la Commissione in parola e particolarmente quello dell'indipendenza.
La legge istitutiva della CONSOB risentiva ancora della tradizione del nostro ordinamento il quale, al di fuori degli organi di rilevanza costituzionale, quali il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, il Consiglio Superiore della Magistratura, relativamente ai quali la forma di indipendenza dal Governo è esplicitamente affermata dalla Costituzione, non sembrava tollerare "fuoriuscite" di organi - non inquadrabili fra quelli legislativi e giurisdizionali - dall'ambito tanto dello "Stato amministrazione", considerato come "persona" titolare di interessi pubblici concreti, quanto degli enti pubblici tradizionali, territoriali e non territoriali, titolari anch'essi di interessi pubblici alla cui cura sono preposti dall'ordinamento. Ecco perché dall'esame della legge istitutiva della CONSOB, condotto all'epoca, non poteva essere colta l'idea di "autorità indipendente" come si è andata via via sviluppando fino ad oggi. Si ritenne perciò che l'organo allora appena istituito (e che oggi viene considerato il capostipite, nel nostro ordinamento, della serie delle autorità indipendenti c.d. di seconda generazione) potesse inquadrarsi nell'ambito dell'organizzazione amministrativa dello Stato-persona e quindi sottoposto alla potestà di indirizzo politico-amministrativo del Governo.
Torna all'inizio del documento
Autorità amministrative indipendenti
di Giuseppe De Vergottini
1. Secondo la Costituzione le amministrazioni pubbliche dovrebbero intervenire nei settori loro affidati in modo imparziale. Anzi la imparzialità è un requisito assolutamente essenziale dell'azione amministrativa per cui, in linea teorica, tutte le volte che un cittadino o una impresa si trova a sottoporre una questione di suo interesse a un ufficio pubblico dovrebbe avere la certezza della equanimità dell'atteggiarsi della amministrazione nei suoi confronti. Ma in realtà le cose stanno molto raramente in questi termini e anzi spesso e volentieri il cittadino o l'impresa hanno la sgradevole sensazione d'essere discriminati dai funzionari dello Stato, oltre che da quelli degli enti territoriali di varia natura. E la ragione è assolutamente evidente: lasciando da parte l'ipotesi del funzionario incompetente e pasticcione e, purtroppo, quella del funzionario fazioso, che tratta gli interessi degli amministrati in modo diverso a seconda di quelli che sono gli orientamenti delle maggioranze di governo o delle maggioranze nelle varie giunte locali, i trattamenti discriminanti nei confronti di chi ha bisogno di una autorizzazione o di una concessione sono all'ordine del giorno.
I problemi possono assumere aspetti particolarmente delicati quando l'intervento o la omissione della amministrazione riguardi alcune libertà economiche, ad esempio in caso di tutela della libertà di concorrenza, o la libertà d'informazione tramite l'uso delle diverse tecnologie disponibili.
Limitando l'attenzione alla situazione che si è via via affermata a livello statale, e lasciando quindi da parte le situazioni locali, notiamo che a poco a poco è invalsa la tendenza di avvalersi di autorità amministrative diverse da quelle che sono controllate direttamente dagli organi di governo che per definizione sono politicizzati. L'esigenza di imparzialità viene soddisfatta separando gli uffici amministrative da quelli ministeriali e sottraendoli alla dipendenza del Governo. In tal modo le autorità amministrative sono indipendenti dall'esecutivo e "neutrali" quanto agli interessi portati alla loro attenzione.
Quanto appena accennato mette in evidenza che le autorità di cui parliamo hanno le caratteristiche di essere poteri "neutri" rispetto alla politica ma è evidente che la loro neutralità è diversa da quella propria dei giudici: le autorità amministrative, nonostante alcune ambiguità cui s'accennerà, sono organi di disciplina settoriale e di tutela di interessi ma non sono partecipi della funzione giurisdizionale.
2. Una delle questioni più delicate che riguarda l'argomento delle autorità indipendenti è data dal fatto che esse non sono previste dalla nostra Costituzione. Esse infatti si sono affermate nella prassi e sono state implicitamente ritenute compatibili con la Costituzione dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 82/1995). Il capostipite delle autorità è stato individuato addirittura nella Banca d'Italia che essendo titolare della funzione monetaria, sovrintendendo al sistema dei pagamenti e alla funzione valutaria e, soprattutto, esercitando la vigilanza sulle banche e sui gruppi bancari, doveva non solo essere strutturata come amministrazione a sé stante ma anche essere svincolata dalla dipendenza dell'esecutivo, godendo di larga autonomia (da ultimo cfr. il d.lgs. n. 385/1993). Dagli anni settanta in avanti sono state istituite numerose autorità incaricate di garantire una corretta disciplina del mercato e quindi a presidio delle libertà economiche (Consob, Isvap, Commissione di garanzia sull'esercizio dello sciopero nei servizi pubblici, Autorità di vigilanza sui lavori pubblici e, soprattutto Autorità garante della concorrenza e del mercato, per citare le più note). Altre autorità sono state preposte alla tutela della libertà di informazione (Garante per la radiodiffusione e l'editoria, Autorità per l'informatica nelle P.A., Garante per la tutela delle persone quanto al trattamento dei dati personali, Autorità di garanzia nel settore delle comunicazioni).
Le autorità istituite e oggi operative solo in modo improprio possono considerarsi rispondenti a un modello omogeneo.
Torna all'inizio del documento
Autorità indipendenti e mercato
di Alberto Pera*
1. Per un economista interessato alle questioni istituzionali, il dibattito sul ruolo delle cosiddette Autorità indipendenti riveste un particolare interesse.
Le differenti posizioni riflettono infatti visioni diverse dei rapporti tra istituzioni formali, quindi l'apparato dello Stato, e istituzioni informali, principalmente il mercato, nel determinare il funzionamento dell'economia. Al riguardo, sembra imporsi la scelta tra l'impostazione di Keynes, sinteticamente elaborata nel saggio "La fine del laissez faire", di un intervento pubblico variamente articolato e diffuso, ma comunque necessario per garantire lo sviluppo economico; e la visione di Hayek e della tradizione liberale di attenzione ai confini dell'intervento pubblico e della sua influenza sul libero svolgimento dei rapporti tra privati.
2. Ad esempio Predieri1, che esplicitamente condivide l'impostazione keynesiana, vede queste istituzioni come articolazioni di quello che egli definisce Stato osmotico, che cerca di rispondere all'esigenza di garantire l'efficiente funzionamento dell'economia in modi differenziati, a seconda delle circostanze. La diversificazione delle economie moderne richiede di strutturare l'intervento in forme decentrate e autonome. Quindi, le autorità sono viste come organi della pubblica amministrazione, con finalità di pubblico interesse da perseguire adottando criteri tecnici e non politici. I limiti dell'utilizzazione di questi organismi sembrano dipendere, pertanto, solo da considerazioni relative alla applicazione dell'azione pubblica.
Tuttavia, ci si può chiedere se il punto di partenza "keynesiano" sia realmente appropriato, ovvero se alla base dello sviluppo delle autorità indipendenti non vi sia piuttosto una diversa impostazione della dicotomia potere pubblico - autonomia privata.
3. Infatti, in Italia come in altri contesti europei, la introduzione di nuovi organismi è avvenuta, a partire dalla fine degli anni '70, nel contesto di una tendenza verso un ampliamento del ruolo del mercato come meccanismo ordinatore nei comportamenti degli operatori economici2. Vi è così una forte correlazione tra introduzione di nuovi organismi e i processi di privatizzazione, che hanno dato luogo al trasferimento al settore privato della proprietà di imprese o di interi settori prima controllati dallo Stato, e di liberalizzazione di settori precedentemente caratterizzati da condizioni di riserva legale.
4. Queste tendenze hanno avuto come implicazione una diversa relazione tra potere pubblico e autonomia privata. Questo è percepibile tanto nei settori liberalizzati, quanto in quelli ancora sottoposti a regolamentazione.
Nei primi, che vengono pienamente esposti all'operare del mercato, la liberalizzazione svincola una serie di attività dalla sottoposizione a un regime di controllo amministrativo, riportando i relativi rapporti nella sfera governata dal diritto privato. Né vale osservare che, pur sempre, l'autonomia privata deve essere sottoposta alle regole che governano il funzionamento del mercato. Infatti, da un sistema nel quale "ogni decisione del soggetto privato è raddoppiata da una decisione preventiva o successiva del soggetto pubblico" si è passati a "un sistema nel quale la disciplina pubblica non è più volta a conformare l'attività privata, bensì a dettare le regole e le condizioni generali del suo svolgimento": una disciplina, si aggiunge giustamente "simile a quella posta dalle norme del codice civile"3. E' difficile sottovalutare la portata di questo cambiamento che, specie in paesi abituati a una tradizione di intervento amministrativo nel mercato, ha quasi portata di mutamento costituzionale.
Torna all'inizio del documento
LA NEUTRALITÀ MASCHERATA
Né competizione, né cooperazione
di Luigi Compagna
In una società libera i poteri neutri devono offrire e garantire competizione. Ma non è che competizione nell'accezione liberale significhi l'opposto di cooperazione. Anzi, proprio "cooperazione" è parola-chiave della cultura liberale del ventesimo secolo: si pensi, soprattutto, a Mises.
Ci siamo finora occupati di quel che sono o dovrebbero essere i poteri neutri nel nostro assetto istituzionale. Proprio perché, quando i poteri neutri non sono più tali, non c'è né competizione, né cooperazione.
Come si spiega, dal '90 in poi, il sorgere di tante Autorità alla ricerca di qualche cosa, direbbero Caianiello e De Vergottini, che vada al di là dell'"imparzialità" dell'articolo 97 della Costituzione? E perché poi millantare come "potere neutro" tante esigenze di "gubernaculum" e non di "iurisdictio", direbbe Matteucci, proprio quando il passaggio dal proporzionale al maggioritario accentuava le istanze di governement rispetto a quelle di control?
Nulla riesce ad esser meno anglosassone della pretesa di costruire, o recepire, "ordini spontanei" in off-side rispetto al dettato costituzionale. E di ciò stamattina sono stati forniti non pochi esempi e riferimenti nostrani. Ora si tratta di rilevare come tutto questo si sia imposto nella logica di un antiparlamentarismo radicale e settario, avverso a qualsiasi spirito di cooperazione liberale.
L'antiparlamentarismo '92-'94 abbattutosi sul cosiddetto "parlamento degli inquisiti" può essere stato solo un dato di cronaca. Non altrettanto, però, l'idea che l'esercizio dell'azione penale non dovesse conoscere limiti, di parlamentarismo appunto, di costituzionalismo più in generale, ove dettato da sicura sintonia con l'opinione pubblica. Di qui l'eliminazione dalla competizione politica di taluni uomini e partiti o dalla competizione economica di taluni imprenditori e prodotti, senza che né l'elettorato né il mercato si fossero potuti esprimere: dal momento che l'accusa, oltre che il ruolo della difesa ed il momento del giudizio, aveva preteso di assorbire in sé tutti gli ambiti della "società civile".
Occupato lo Stato di diritto dallo Stato etico, come e dove può esserci "civil society", nel senso di Smith, Ferguson, Hume? Resta soltanto la "società civile" di Hegel, titolata a far "giustizia", appunto, senza valori né procedure di terzietà: come piace alle Procure dei Caselli e dei Borrelli. Il potere neutro, che Sieyès rimetteva al giurì costituzionale e Constant al re, viene negato alle radici. E con esso la cooperazione di Mises, la società aperta di Popper, l'ordine spontaneo di Hayek.
Alessandro Pizzorno, nel suo recente Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù (Laterza, aprile '98), arriva ad interpretare Mani pulite come episodio di una storia non solo italiana che cambia la natura dello Stato moderno. "L'indignazione - egli conclude - da più parti precipitosamente espressa verso le esternazioni del pubblico ministero Gherardo Colombo si è esplicitamente o implicitamente riferita ad una concezione dello Stato democratico di tipo tradizionale, con i tre poteri nettamente circoscritti, fra i quali il potere giudiziario occupa un ruolo subordinato perché non è espressione del consenso popolare, inteso come consenso elettorale. Non si è distinto dagli altri il consenso pubblico, o lo si è considerato mera anticipazione, o appendice, del consenso elettorale; non invece, com'è, istituzione che propone una sua logica autonoma, in obbedienza alla quale i principali soggetti pubblici si sono mossi e scontrati, e dalla quale quindi si possono esercitare poteri a volte più forti di quelli che si vogliono esercitare sul fondamento dei numeri del consenso elettorale".
Torna all'inizio del documento
Poteri neutri e dimensione della mano pubblica
di Angelo Maria Petroni
Io parlerò non da economista né da giurista, ma da filosofo. Io credo che un errore fondamentale che fa la cultura non liberale a proposito della questione della neutralità dei poteri è di non riuscire a comprendere che la neutralità dei poteri, ovvero che lo Stato di diritto, non dipende soltanto dalle strutture istituzionali, dipende dal livello assoluto del potere. Così, l'ideale ottocentesco della magistratura indipendente funzionava in tanto e per quanto lo Stato aveva competenze molto limitate, e individuare un reato rispetto a un comportamento normale era qualcosa di semplice.
Un mese e mezzo fa mi sono trovato a un dibattito per la presentazione di un libro di Giulio Tremonti "Lo stato criminogeno". A questo dibattito c'era anche un famoso magistrato milanese, il quale ha ripetuto il ben noto discorso sul voto di scambio, intorno al quale la magistratura deve vigilare. Tutto ciò è molto giusto: voto di scambio significa che si promettono favori in cambio dell'acquisizione di voti. Ma è stato ricordato che nell'ultima finanziaria sono stati abbassati i tassi di rendimento delle pensioni per tutti tranne che per i ferrovieri. Che differenza c'è tra il voto di scambio consistente nel promettere pensioni di invalidità e il procurarsi i voti dei duecentomila ferrovieri e loro famigliari esentandoli dalle riduzioni che vengono applicate a tutti gli altri cittadini? La risposta significativa di questo magistrato è stata: "Lei ha ragione, ma purtroppo non possiamo indagare gli atti del parlamento". Ovviamente per un liberista, e per un liberale, non è questa la soluzione. Non si risolverebbe il problema se la magistratura o qualche organo della magistratura avesse il potere di indagare le leggi del parlamento. Il problema è che finché i parlamenti avranno poteri illimitati di fare quello che vogliono il discorso sulla neutralità è privo di qualsiasi contenuto. Nel momento in cui rientra nei poteri legittimi del parlamento modificare un sistema pensionistico, redistribuire il reddito come si vuole, cambiare le normative come si vuole, nel momento in cui lo Stato assorbe il 55% del reddito nazionale e l'altro 45% lo regolamenta e lo distribuisce come preferisce, il concetto di neutralità è semplicemente irrealistico. A cosa servono le Autorità Garanti come quella del Mercato e della Concorrenza quando il governo decide di trasferire alcune migliaia di miliardi alla Fiat attraverso gli incentivi per la rottamazione? Qual' è la sostanza di una politica della concorrenza quando il governo ha questo tipo di poteri? La realtà è che i governi hanno il potere di concedere benefici particolari a gruppi particolari senza alcuna limitazione. Non esiste neutralità dei poteri, non esiste Stato di diritto se non si specifica il livello assoluto dei poteri di uno Stato.
Credo che questo sia uno spartiacque fondamentale fra chi è liberale, e chi ha un'altra visione del mondo. Oggi assistiamo al fatto che è stato considerato come essenziale quello che è invece l'involucro formale del liberalismo. Controllo, concorrenza, competizione, non hanno molto significato se non si tiene presente che il liberalismo è una teoria della limitazione dei poteri, prima ancora che una teoria della loro distinzione. Il vero problema non è se le regole della concorrenza vengano fatte decidere o applicare dalla direzione generale del Ministero dell'industria, oppure da una qualche Authority. Se lo Stato o la mano pubblica sale al 55% del PIL non esistono più poteri neutri, e non esiste neanche una reale distinzione dei poteri.
Questo mi permette di collegarmi al problema del rapporto tra competizione e cooperazione. Non vorrei fare il solito discorso neo-classico, o anche neo-austriaco, per cui la competizione è la migliore forma di cooperazione. Abbiamo molte dimostrazioni in tal senso, ma il problema è che queste dimostrazioni sono spesso molto astratte e non tengono conto di realtà quali i costi di transazione, le dotazioni iniziali, o altre cose ancora. Ma sicuramente il problema delle nostre società, e di quella italiana in particolare, è che la competizione è diventata non più competizione tra individui, tra consumatori e produttori, bensì una competizione e collaborazione tra gruppi, ovvero collusione. I nostri Stati sono largamente Stati neocorporativisti...
Torna all'inizio del documento
Parlamento e poteri neutri
di Massimo Teodori
Come la maggior parte degli amici che mi hanno preceduto sono una persona appassionata della società liberale. E sono appassionato non della idea liberale in astratto, ma del comprendere che cosa va in questa direzione e che cosa in quella opposta nella società intorno a noi. Credo che una delle grandi sciagure di questa Italia nei 20 anni, 30 anni che ci hanno preceduto sia appunto quel che è stato chiamato in gergo la società consociativa, che è appunto quella certa cosa per cui tutti stanno insieme, tutti decidono insieme, nessuno è responsabile, nessuno controlla, non si sa bene le decisioni da chi vengono, decisioni per che cosa sono prese purché si stia tutti insieme appassionatamente e il valore dell'unità è un valore in sé per sé, indipendentemente da quello che produce. Vorrei trattare anche il problema dei poteri neutri, non già per comprendere se sono effettivamente neutri o non lo sono. Questa potrebbe essere una disputa molto astratta: mi interessa piuttosto sapere se il problema dei poteri neutri è qualcosa che realizza maggiormente una società liberale in cui si realizza il massimo di responsabilità, il massimo di controllo, il massimo di delimitazione degli abusi di potere, il massimo delle libertà e dei diritti per gli individui o se invece i poteri neutri, dizione molto vaga, producono il contrario. Tratterò in maniera molto empirica una questione molto specifica: quella di che cosa hanno fatto i presidenti della Camera e del Senato, i presidenti delle assemblee elettive nei passati 20 anni rispetto ai poteri neutri, il loro interventismo, l'espansione o la delimitazione dei loro poteri e che cosa tutto ciò ha prodotto.
Il modello consociativo che ha dominato dagli anni 70 in poi è stato un modello che concepiva i presidenti delle assemblee elettive, il presidente della Camera e il presidente del Senato come degli uomini rappresentanti l'unità nazionale, rappresentanti la Costituzione al di sopra delle parti, coloro cioè che dovevano offrire garanzie, delle specie di vice presidenti della Repubblica, per cui venivano visti come una sintesi unitaria delle istanze politiche presenti nelle Camere. In realtà, questa funzione data ai Presidenti delle Camere come veniva vista in pratica, che cosa significava? Significava una cosa molto più banale ma politicamente pregnante. Secondo una consuetudine invalsa nella metà degli anni Settanta, i Presidenti delle due Camere appartenevano uno alla maggioranza e uno al Partito Comunista. In realtà la neutralità, la rappresentanza della Costituzione, la rappresentanza dell'unità nazionale dei Presidenti delle Camere non era qualcosa di molto alto ma era soltanto una divisione di compiti fra uno che rappresentava la maggioranza intorno alla democrazia cristiana o alla maggioranza governativa e l'altro rappresentava il maggiore partito di opposizione, il partito comunista, i quali si mettevano insieme e insieme dicevano: noi rappresentiamo in realtà qualcosa al di là della politica, perché siamo tutto, perché siamo la mediazione, siamo la rappresentanza di tutto quello che c'è di politico e quindi siamo non dei politici ma la Costituzione, impersoniamo la Costituzione.
Torna all'inizio del documento |