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SOCIETA' LIBERA
Per una società del sapere di Franco Tatò
Soggetti culturali e democrazia liberale di Vincenzo Olita
Futuro e libertà di Chiara Anguissola
Ridurre il territorio della politica di Giancarlo Bosetti
Stato di diritto e governo di opinione di Luigi Compagna
Alla riscoperta della libertà individuale di Raimondo Cubeddu
Società aperte - Società liberali di Ralf Dahrendorf
Libertà economica e libertà politica di Andrea Marcucci
Una società libera, oggi di Angelo M. Petroni
Società libera di Giovanni Sartori
Il liberalismo per l'Europa del 2000: una proposta semplice di Carlo Scognamiglio
Verso orizzonti liberali di Vincenzo Simoncelli
Appendice - Manifesto liberale di Oxford
Per una società del sapere
di Franco Tatò
Il Governo Prodi, un Governo dichiaratamente di sinistra, ha presentato un progetto di legge con il quale si tenta di liberalizzare parzialmente e con molte cautele il mercato della distribuzione, in particolare il commercio. Questo progetto ha suscitato una violenta reazione da parte dei commercianti e questo si può capire. Ma più sorprendente è stata la reazione dellopposizione. Questa opposizione, che ha ispirato la sua campagna elettorale ai principi della democrazia liberale (ma chi non lo fa al di fuori delle ali estreme?), anziché sottolineare le insufficienze del progetto, si è opposta ad esso in nome dellesigenza di evitare una liberalizzazione selvaggia del mercato. Si sarebbe potuto chiedere di liberalizzare anche superfici superiori a trecento metri quadrati, di non limitare le autorizzazioni alla grande distribuzione, di rendere lorario di apertura totalmente libero, di introdurre il concetto di "avviamento" in sostituzione di quello di licenza di esercizio, oppure fare altre proposte che incoraggiassero la specializzazione della distribuzione al dettaglio o facilitazioni fiscali per i nuovi esercizi o per le spese di ristrutturazione e così via. Si sarebbe potuto chiedere come mai non vengono liberalizzate le licenze dei giornalai e dei farmacisti. Niente di tutto questo: sembra sia prevalsa lesigenza di sostenere le posizioni dei commercianti, per conservarne il favore elettorale. Alcuni spiriti liberali allinterno dellopposizione si sono espressi in dissenso dalle posizioni dei vertici politici. Certamente non tarderanno a manifestarsi le opposizioni dei sindacati di settore e di certe parti della sinistra, anche non estrema, che fatica a rinunciare al fascino della regolamentazione, della concessione, del permesso, dellintervento della politica nella ridistribuzione della ricchezza prodotta, piuttosto che nel creare le condizioni per produrne di più. Una situazione analoga stiamo vivendo, non solo in Italia, nel lento procedere del processo di privatizzazione delle imprese di Stato. Sulla base dei risultati ottenuti, non dovrebbero esserci dubbi, che il mantenimento della proprietà dello Stato nelle imprese va a solo vantaggio dei privilegiati che vi lavorano, certo non della Società o dei consumatori. Eppure nella discussione sui tempi e sui modi della privatizzazione e della liberalizzazione dei mercati ancora gestiti in regime di monopolio, emerge chiaramente uno schieramento trasversale, non condizionato direttamente dalle ideologie dei partiti di appartenenza, favorevole al mantenimento di una presenza dello Stato nella gestione diretta delleconomia. In questo caso, più che il timore di una perdita diretta del suffragio o del sostegno di una categoria, si manifesta il timore di una progressiva ritirata della politica dalle posizioni di influenza. Se lazienda di Stato venisse privatizzata trasferendone la proprietà in modo semplice e diretto ai risparmiatori o a investitori finanziari, magari internazionali, il management sarebbe ancora meno influenzabile di quanto non lo siano i padroni delle imprese a controllo familiare. Sicuramente un management indipendente sarebbe meno asservito a interessi politici del tradizionale boiardo, da essi dipendente per il rinnovo della sua carica e privo di mercato nelle imprese private. Largomento abusato di un eccesso di potere del management in una public company, accettato negli Stati Uniti e in Inghilterra come elemento strutturale della gestione societaria, sembra veramente risibile. Qualcuno il potere deve esercitarlo e il management per lo meno, può essere cambiato in qualunque momento se non soddisfa gli azionisti.
In Germania è stato pubblicato recentemente il rapporto della "Commissione per i problemi del futuro" istituita dai Governi della Baviera e della Sassonia, e presieduta da Meinhard Miegel. Ebbene il suggerimento conclusivo dato dalla Commissione ai governi atipicamente conservatori dei due Stati, rispettivamente CSU e CDU, è stato quello di abbandonare il modello di società centrata sul lavoratore dipendente, a favore del modello imprenditoriale di una società basata sul sapere. Non dimentichiamo che gli stessi partiti al Governo in Baviera e Sassonia fanno parte della coalizione che sostiene il Governo Federale, il quale recentemente ha dimostrato di non essere in grado di introdurre elementi di innovazione nel mercato del lavoro e nel sistema fiscale volti a una più che urgente liberalizzazione delle condizioni operative del mercato.
Da queste osservazioni possiamo concludere che le esigenze di apertura della società e del mercato sono diventate esigenze obiettive del sistema e non sono più bandiere ideologiche di parte. Lidea di una società libera non appartiene più alla destra o alla sinistra, ma si sviluppa trasversalmente agli schieramenti politici ancora organizzati attorno a vecchi schemi.
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Soggetti culturali e democrazia liberale
di Vincenzo Olita
Si avverte sempre più la necessità di un impegno volto a puntualizzare i principi di fondo del liberalismo, caratterizzanti uno Stato di diritto e una società civile che voglia affrancarsi da pastoie dirigiste e, allo stesso tempo, da confuse, e purtroppo diffuse, impostazioni liberaleggianti. Tratteggiare un modello di società liberale non è compito agevole.
A seguito della conclusione dellesperienza storica comunista, paradossalmente, il liberalismo in Italia, vive momenti di alta criticità. Furbescamente interpretato quale sistema economico politico vincente, si assiste ad un suo strumentale utilizzo, in nome e per conto di esigenze partitiche anche politicamente antitetiche. Storicamente vivace, rischia nellimmediato una sorta di asfissia per confusa unanimità.
Non si tratta di allestire un programma politico, né di intervenire nelle logiche proprie della politica politicante. E utile contribuire al processo di trasformazione italiano senza essere parte politica, consapevoli dellammonimento popperiano: <<Un rapporto troppo stretto con la politica di partito non si concilia facilmente con la purezza di una dottrina>>. E indubbio altresì che uniniziativa culturale si pone, di fatto, come retroterra del dibattito politico, avendo ben chiara però la distinzione crociana tra la politica dei politici e la politica della cultura. Ed è questultima che supera felicemente, per dirla con Bobbio, la dicotomia tra cultura politicizzata e cultura apolitica.
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Futuro e libertà
di Chiara Anguissola
Il termine liberalismo è usato oggi in una varietà di significativi che hanno poco in comune se non il fatto di designare un'apertura vero idee nuove. Esso affonda le sue origini nell'antichità classica e si rivitalizzò nel tardo '600 e '700 con i principi politici dei whigs inglesi; i quali con un "governo soggetto alla legge" avevano assicurato libertà individuale ai cittadini della Gran Bretagna e ispiravano i movimenti per la libertà nel continente dove ancora c'era l'assolutismo.
Il concetto di liberalismo divenne la convergenza di tre postulati: libertà di pensiero, di parola, di stampa.
Ricordo in famiglia, Max Salvadori (Londra 1908-Northampton 1992), storico politico intellettuale, liberale di stampo anglosassone, formatosi al pensiero di Locke, di Montesquieu, di Bentham, di Mill, dei classici americani e di Croce. In una lettera aperta al direttore della rivista "Le parole del popolo" concludeva: "Oggi, come quando ero adolescente agli inizi degli anni '20, ritengo indispensabile per la sopravvivenza ed il progresso dell'umanità il libero pensiero inscindibile dalla libertà di espressione, la democrazia come organizzazione di libertà, la tolleranza che permette di coesistere pacificamente pur conservando ognuno la propria identità".
La società libera ha sicuramente nel pensiero di von Hayek il massimo esponente della teoria liberale del '900, quarta generazione della Scuola Austriaca di economia in primis, aperta poi alla sociologia, alla politica, alla teoria della scienza. Ispirandosi a quella tradizione culturale che da Adam Smith giunge a Carl Menger, Hayek osserva come solo l'individuo, più di qualsiasi uomo di Stato o legislatore, sia in grado di sapere come impiegare le proprie risorse. La cosiddetta teoria dell'individualista si riconosce nella limitatezza dei poteri della ragione dei singoli e propugna la libertà come processo che produce esiti "intenzionali" (cioè voluti e previsti dagli attori sociali), e soprattutto esiti 'inintenzionali" (cioè non progettati dai singoli), che sono il risultato della loro interazione. Anche la teoria della conoscenza di Karl Popper è basata sulla constatazione che le nostre conoscenze sono parziali e fallibili, essendo tali l'uomo necessita di un 'habitat' che consenta a ciascun individuo, posto sullo stesso piano giuridico/formale degli altri, di partecipare alla ricerca competitiva della verità, in cui nessuno detiene una soluzione già prestabilita, ma tutti concorrono alla sua ricerca. Ciò coincide con il concetto di mercato inteso come procedimento di continua scoperta. Se noi già sapessimo chi potrà soddisfare i nostri bisogni, non avremo la necessità del meccanismo della concorrenza, che applichiamo all'economia, alla scienza, ed alla democrazia politica. Scrive von Hayek: "La libertà è essenziale per far posto all'imprevedibile ed all'impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa, nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi. Siccome ogni individuo sa poco, e in particolare sa raramente chi di noi sa far meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, (mercato) per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo".
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Alla riscoperta della libertà individuale
di Raimondo Cubeddu
Per la tradizione liberale si può parlare di società libera quando gli individui possono scambiare liberamente, e senza ledere i diritti altrui, i beni e i servizi che ritengono necessari per soddisfare i propri bisogni. Una 'società libera' è dunque una forma di 'associazione civile' nella quale la realizzazione delle finalità individuali non dipende dall'intervento dello stato, e nella quale a quest'ultimo è attribuito il compito di garantire i diritti naturali, di stabilire le regole universali ed astratte mediante le quali avvengono gli scambi e si perseguono i fini individuali, e di sanzionare le eventuali lesioni dei diritti.
Presupposto di tale forma di 'associazione politica' è quindi la diversità naturale degli individui, intesa come facoltà di attribuire valore soggettivo ai beni e ai fini, ed il suo scopo è di ridurre la quantità di problemi risolvibili tramite l'intervento del potere politico.
Il liberalismo classico riteneva di poter conseguire tale obiettivo distinguendo rigorosamente la 'sfera privata' da quella 'pubblica', e ponendo dei limiti costituzionali invalicabili onde garantire la libertà individuale dalla congenita tendenza del potere politico ad ampliare le proprie sfere di competenza e d'intervento.
Di fatto questa soluzione del problema si è dimostrata di difficile attuazione per una serie di motivi. Anzitutto perché il potere politico è sempre riuscito ad eludere i limiti costituzionali concepiti per arrestarne la dilatazione, ed inoltre perché è estremamente difficile immaginare azioni individuali che non abbiano conseguenze, sia pure non-intenzionali, per altri individui. Infine perché l'emergere delle novità nel processo della catallassi può produrre concentrazioni di potere nelle mani di coloro i quali, introducendole e potendone gestire le ripercussioni, potrebbero anche essere in grado di dirigere il processo sociale in una direzione solo a loro favorevole. In una situazione di questo tipo, una parte più o meno ampia dei partecipanti al processo della catallassi si potrebbe trovare nella condizione di non poter scegliere liberamente e, pertanto, di non poter fare previsioni attendibili circa il futuro soddisfacimento delle aspettative individuali.
Di conseguenza, per quanto il presupposto di una società libera sia la naturale diversità degli individui, come ci si può chiedere quanta disuguaglianza possa tollerare il mercato, così ci si deve chiedere quanta diversità possa tollerare una società libera. Infatti, se una libera discussione sui problemi ritenuti comuni e sui mezzi per risolverli è la condizione per giungere alla loro migliore soluzione (vale a dire ad una soluzione che abbia il minor numero di conseguenze indesiderate prevedibili), è anche vero che, allorché i problemi diventano complessi, la loro soluzione richiede il possesso di conoscenze altamente specialistiche. Anche in una circostanza di questo tipo, si potrebbero determinare situazioni nella quali alcuni individui non sarebbero in grado di fare previsioni attendibili circa la realizzabilità delle loro aspettative, In altre parole, la diversità di conoscenze potrebbe essere tale che alcuni individui non sarebbero in grado neanche di immaginare le conseguenze negative che potrebbero derivare dall'accettare o dal respingere specifiche soluzioni. Nel caso si manifestasse una situazione di questo tipo, le loro future possibilità di scelta verrebbero in qualche modo, e in misura non prevedibile, limitate.
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Una società libera, oggi
di Angelo M. Petroni
Il problema di una società libera, nonc et in Occident, è oramai largamente indistinguibile dal problema di quale sia l'ordine politico buono dal punto di vista liberale. La ragione di questa coincidenza è semplice, e non può far piacere ad un liberale. Essendosi estesa la sfera del potere politico ad ogni aspetto della vita privata e civile, ed essendo svanita ogni distinzione di principio e di fatto tra diritto privato e diritto pubblico, non esiste alcuna dimensione sociale che non sia una dimensione politica.
L'esperienza delle democrazie liberali ha dimostrato a sufficienza che non c'è un unico modello di ordinamento politico che sia compatibile con i principi del liberalismo. Le tradizioni nazionali e le circostanze storiche sono determinanti. Tuttavia la relatività non deve necessariamente significare relativismo. Questo sembra essere diventato l'atteggiamento assunto da molti intellettuali che si autodefiniscono liberali. Essi assumono, implicitamente od esplicitamente, che ogniqualvolta certe condizioni di base della democrazia rappresentativa sono soddisfatte, allora i principi di base del liberalismo sono anch'essi soddisfatti. La realtà concettuale e storica delle differenze che rendono il liberalismo qualcosa che va ben al di là dei principi minimali della democrazia rappresentativa sembra essere andata smarrita: ed è soltanto grazie a questo "smarrimento" che si è potuto affermare lo slogan per cui oggi "siamo tutti liberali". Ma il liberalismo, anche nella sfera politica, è una visione molto più esigente.
Da un punto di vista liberale, qualsiasi ordinamento politico deve venire giudicato sulla base del soddisfacimento di alcuni parametri fondamentali. Questi sono:
1. La capacità di rendere chiaro ed evidente all'elettorato chi ha preso certe decisioni, e chi vi si è opposto;
2. La capacità di render chiara ed evidente la natura di ogni spesa pubblica, e su chi essa grava;
3. La capacità di generare una efficace azione collettiva in tutte quelle aree dove essa è giudicata necessaria dall'elettorato;
4. La capacità di generare decisioni che non hanno mai effetti irreversibili, ovvero effetti che non possano essere rovesciati qualora l'opinione espressa in una diversa legislatura lo voglia.
Il punto 2. è oggi di particolare importanza per la stessa sopravvivenza della democrazia liberale. Sin dalle origini essa è stata indistinguibile dalla questione del controllo da parte dei cittadini della tassazione, dei suoi scopi e del suo effettivo impiego. I meccanismo come il debito pubblico, il "play-as-you-earn" dei sistemi fiscali, il "pay-as-you-go" dei sistemi previdenziali a ripartizione, hanno fatto sì che oggi la grandissima parte dei cittadini non sa n- quanto dà allo Stato, né quanto ne riceve. Nessuna autentica democrazia può esistere sotto queste condizioni. Il "consenso socialdemocratico" è stato ed è viziato dal fatto che il consenso è stato ottenuto nascondendo volontariamente ai cittadini i costi delle politiche pubbliche socialiste, rendendo visibili soltanto i benefici.
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Ridurre il territorio della politica
di Giancarlo Bosetti
E' utile che si costituisca una Fondazione culturale ispirata ai principi della "società aperta", che essa sia animata da persone politicamente diverse ma accomunate dall'intento di promuovere la conoscenza, lo studio e la diffusione delle idee liberali. Sarebbe invece inutile, e probabilmente anche dannoso, costituire con le stesse persone un organismi che avesse pretese di intervento politico. Fortunatamente un incontro di carattere culturale tra individui che hanno in comune la condivisione di alcuni fondamentali principi liberali vede confluire figure eterogenee per le loro preferenze politiche. Questo significa semplicemente che la cultura liberale (concetto sul quale adesso cercheremo di essere un po' più precisi) ha fatto un certo tratto di strada, che certi principi sono entrati nel corredo di strumenti per l'agire pubblico di aree crescenti della società e della politica. Scambiare questa condivisione di principi per una nuova formazione politica, o anche soltanto per un gruppo di pressione direttamente o indirettamente riconducibile a una componente politica, sarebbe un errore dannoso perché equivarrebbe a confondere il terreno e le regole del gioco con le squadre in campo. Errore particolarmente pericoloso in Italia dove il processo iniziato, ma non concluso, per affermare l'idea che il gioco politico si deve svolgere tra due squadre ben definite (il cosiddetto bipolarismi) rischia di arrestarsi continuamente a causa delle liti sulle regole, da una parte, e a causa dall'altra, delle tentazioni di fare sparire il pallone a centro campo e di non giocare la partita grazie ad accordi più o meno sottobanco tra le due formazioni.
Che i principi liberali abbiano fatto un buon cammino anche in Italia è indiscutibile, ma è altrettanto certo che quel cammino non è compiuto, si è arrestato un po' troppo indietro rispetto a un modello ideale di democrazia liberale, dotato di un fluido sistema di alternanza e di un solido equilibrio dei poteri, dentro un soddisfacente rapporto tra stato e società, paragonabile a quello delle pim solide e collaudate democrazie del mondo.
Possiamo tentare di sintetizzare i tratti essenziali di una democrazia liberale utilizzando lo schema tracciato da Barrington Moore Jr, in un saggio pubblicato in Italia da "Reset" nel 1996 (n. 25, con il titolo "Il senso del limite, così nascono le democrazie"), e che era nato dalla riflessione sul futuro della Russia nel 1989, al momento della caduta del Muro di Berlino. E noi è un caso che questo paese, la Russia, sorto dal dissolversi dell'Unione Sovietica, per le sue dimensioni e la sua importanza sia tuttora luogo privilegiato si indagine sul problema della democrazia, del suo costituirsi e delle condizioni, non semplici, della sua realizzazione. (Si veda anche il saggio di Stephen Holmes nel volumetto di George Soros, "La minaccia capitalistica", I libri di Reset, 1997).
Ecco quali sono secondo il sociologo americano le condizioni perché fiorisca un regime liberaldemocratico. E' necessario in primo luogo che l'opposizione alle forze politiche in carica venga legittimata e normalizzata. Perché questo accada, dopo qualsivoglia periodo di turbolenze o rivoluzioni, è indispensabile che gli obiettivi delle forze che si avversano vengano limitati e circoscritti, escludendo la sopraffazione degli avversari.
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Società aperte - Società liberali
Ralf Dahrendorf
"Società aperta" non è solo unaltra parola dal suono gradevole senza un gran significato. Essa significa soprattutto un addio ai sistemi socialisti o di diverso segno. Le società aperte ammettono una molteplicità di istituzioni che sono guidate dal principio che il cambiamento sia possibile. Non cè solo un tipo di democrazia; molti progetti costituzionali lasciano aperta la porta del cambiamento politico. Quindi è stato sempre sbagliato provare ed imporre un particolare schema alle nuove democrazia dellEuropa dellEst. Non cè solo un tipo di capitalismo, né di economie di mercato. Qualunque cosa dica un qualsiasi trattato di economia, il mondo reale è ununità di diversità, di molteplicità di culture economiche che sono aperte al cambiamento.
Il capitalismo azionario inglese, il capitalismo partecipativo tedesco, il capitalismo familiare italiana , e altri, sono alternative di economie perfettamente attuabili che si conformano al principio delle società aperte.
Eppure le società aperte non sono tutto ciò che le persone amanti della libertà possono desiderare. Esse sono, in un certo senso, la semplice cornice entro la quale il quadro della libertà apparirà. Le società aperte sono una condizione necessaria ma non sufficiente per la libertà. Le società liberali sono qualcosa di più che le società aperte.
Come possiamo dunque definirle? Io suggerisco che non possiamo farlo attraverso una qualche ideologia. Perfino la parola liberalismo è ingannevole. Essa suggerisce un corpo coerente di idee che guida lazione politica, perfino i partiti politici. Inoltre suggerisce una battaglia permanente con altre dottrine, come il socialismo o il conservatorismo. Dopo il 1989, dopo la rivoluzione che, insieme al comunismo, ha posto fine alla lotta tra i sistemi, alcune battaglie hanno perso molto del loro significato. Trovo più importante riflettere su cosa una società liberale richiede piuttosto che costruire un nuovo liberalismo.
La caratteristica della fisionomia delle società liberali è che esse provano ad aumentare le chances di vita nel quadro delle società aperte.
Le chances di vita sono una serie di condizioni che possono essere definite come una combinazione di opzioni e vincoli. Per opzioni considero soprattutto due elementi: il diritto fondamentale di cittadinanza per tutti, e una gamma di scelte per coloro che ne hanno diritto. Il diritto di voto e la disponibilità di una pluralità di partiti politici; il diritto, e la possibilità, di far parte del mercato e la presenza di beni e servizi tra cui scegliere. Ho chiamato tali scelte delle "facoltà". Perciò le opzioni di cui abbiamo bisogno consistono nei diritti fondamentali, includendovi le condizioni che ci rendono capaci di esercitarli, e una gamma di facoltà che danno sostanza alle nostre scelte.
La lotta per le opzioni ha occupato le forze politiche per tutto il XIX e XX secolo. Era, e resta importante; sarà anche per sempre incompleta. Le condizioni sociali di una effettiva cittadinanza sono sempre minacciate. Altrettanto importante è tuttavia la scoperta che le opzioni da sole non sono sufficienti. I diritti e le facoltà fra i quali essi possono scegliere devono essere incorporati nelle relazioni sociali che danno loro significato. La gente ha bisogno di un senso di reciproca affezione non meno della possibilità di scegliere. Essa ha bisogno di vincoli. Le società moderne hanno teso ad indebolire quei vincoli; esse hanno una tendenza consolidata verso lanomia, la scarsità di leggi, a regole e vincoli tra le persone. Lunione delle opzioni con i vincoli è uno dei maggiori compiti delle società liberali.
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Società libera
di Giovanni Sartori
Delle democrazie liberali si può dire che sono libere società in un libero Stato. Ma cosa vuol dire "società libera?" In ultima analisi, e sorvolando sulle accezioni ovvie della dizione, dirò così: una società è tanto più libera quanto più è capace di autoregolazione. Una società libera non ha bisogno di appellarsi al despota Hobbesiano perché è capace di risolvere i propri problemi e conflitti i potere mediante feedbacks, mediante retroazioni endogene. Nel linguaggio cibernetico di Karl Deutsch le società libere possono essere descritte come sistemi che si autopilotano, si auto-alimentano e si auto-riparano, e pertanto come sistemi ad alta capacità di ricezione di stimoli e/o di neutralizzazione dei disturbi.
In termini più familiari, una società libera è capace di autoregolazione in quanto è una società strutturata su forze controbilanciati e su meccanismi riequilibranti. Dico "forze" perché non guardo alla società sotto specie di aggregato di individui singoli, ma sotto specie di insieme strutturato di gruppi e di organizzazioni. Vale anche osservare che la accezione qui proposta di "società libera" non postula che una società sia tanto più libera quanto più "senza comando" o "senza Stato". No. Per la mia definizione quel che la rende, o mantiene, libera è una struttura di potere atta a neutralizzare ogni potere soverchiante. Ad ogni momento troveremo un bilanciamento globale diverso (e cioè stati in equilibrio dinamico) prodotto da una diversa agglutinazione di forze squilibranti e riequilibranti. Ma a nessun momento nessuna forza singola (sia quella di una classe, di un partito, di un esercito, di una chiesa, di un sindacato o altri gruppi) è irresistibile se altre forze si alleano per resisterle. Il che equivale a dire che se una società esprime al proprio interno una singola forza schiacciante, o soverchiante, quella società non sarà più (in prospettiva) libera. Dunque, e in sintesi, una società libera è una società in equilibrio (dinamico), laddove una "società squilibrata" caratterizzata da equilibrio indifferente (a retroazioni impazzite, sfuggite di mano e che si dispiegano a caso) è una società incapace di gestirsi da sé.
Questa impostazione consente di rifiutare due opposti semplicismi. Non solo la tesi che ogni società ricoperta, altimetricamente, da sovra-strutture (quali che esse siano) sia per ciò stesso una società non-libera; ma anche, all'altro estremo, la tesi secondo la quale ogni società che esibisce elezioni, partiti, parlamenti, e una carta detta costituzione sia, per ciò stesso, libera. No. Partiti, parlamenti, e costituzioni diventano indicatori ingannevoli, e cioè non sono segno e espressione di società libera, se non riflettono una struttura pluralistica di forze controbilancianti che si auto-limitano reciprocamente, e per essa una società capace di risolvere i propri conflitti di interesse e di potere mediante retroazioni endogene, mediante controbilanciamenti spontanei.
Tutto ciò posto, il quesito è: le nostre società (libere, liberal-democratiche, o occidentali) sono ancora capaci di autoregolazione? Oppure le nostre società sono minacciate, al proprio interno, dall'emergere di forze, o di poteri, soverchianti e non-resistibili?
Anche a prima vista appare chiaro che l'insieme degli automatismi riequilibranti delle società libere è dovunque, anche se in diversissima misura, in difficoltà, in stato di deterioramento. Per molteplici ragioni. Ne indico, per necessaria brevità, la più importante: la tecnologia. Infatti il progresso tecnologico crea dipendenze e interdipendenze sempre crescenti e sempre più incatenate, dipendenze e intercatenamenti che a loro volta aumentano sia la fragilità come la vulnerabilità di tutto il corpo sociale. Della fragilità già siamo avvertiti. Ma la vulnerabilità rinvia alla domanda: vulnerabilità da parte di chi? Non c'è vulnus se non c'è feritore.
Nella dottrina che ad un tempo disegna e riflette la costruzione di una libera società in un libero Stato, i partiti (al plurale) risultano non solo un congegno essenziale, ma sono lo strumento, lo strumento per antonomasia, a) della aggregazione e b) della trasmissione delle domande espresse dalla società allo Stato. La dottrina non ne prevede o raccomanda altri. E' vero che prende atto dell'esistenza di un canale concomitante, quello dei gruppi di pressione o di interesse; ma questi gruppi di interesse non sono parte essenziale e necessaria dell'ingegneria politico-costituzionale: ci sono, esistono, e basta. Viene subito da chiedersi: e i sindacati? Dove stanno? Qual è il loro ruolo? E quale il loro peso?
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Verso orizzonti liberali
di Vincenzo Simoncelli
I complessi scenari di questa società aprono importanti prospettive per gli ideali liberali.
Pur in una confusa frammentazione, orientamenti, tendenze, sfide globali sembrano legittime in sede storica i nostri valori di riferimento. A cominciare dai due più clamorosi avvenimenti di questi ultimi anni: la globalizzazione dell'economia e il crollo del comunismi antagonista storico della cultura occidentale.
A tal punto che tutti si sono proclamati liberali, a volte con grossolane e grottesche operazioni d'appropriazione indebita, solo perché destra e sinistra, con modalità e tempi diversi, hanno acquistato una maggiore sensibilità rispetto ai temi del garantismo e dei diritti civili.
Ma non voglio rivolgermi a quelli che sono diventati liberali, ma a quelli che lo sono da sempre.
Io non so dire se stiamo transitando verso un'età liberale: personalmente credo che anche oltre le soglie del Terzo Millennio l'idea liberale sarà destinata a rimanere minoritaria, proprio per le sue caratteristiche di fondo: non promette certezze né salvezze, non impone obbedienze, non cerca di piacere a tutti.
Sono però del parere che potrà esercitare un ruolo "profetico" sulla società del futuro, a patto che riesca a chiarire fino in fondo ragioni, identità e proposte.
Dico questo perché mi pare che nella sensibilità critica dei più, non solo a livello di cultura politica, il liberalismo sia percepito come una "dottrina negativa", minimalista, all'insegna del "no": un'ideologia percorsa da individualismo, asocialità, egoismi economico, relativismi morale.
Si dovrà effettuare e dimostrare una volta di più, insieme all'attualità la garanzia e l'attendibilità dell'essere liberali in una società matura ed evoluta, oltreché in una democrazia moderna e compiuta.
Partire dal fatto che i diritti individuali sono la culla e il presupposto della cooperazione sociale e segnano il limite e la garanzia della convivenza.
Così come una comunità davvero aperta, una società veramente civile altro non è che un'aggregazione d'individui, un moltiplicatore delle dimensioni esistenziali
Si dovrà affermare che le democrazie liberali si sono battute sempre e ovunque per ridurre le disparità più stridenti tra le condizioni di vita, ma al tempo stesso hanno garantito la società civile dall'intervento invadente ed esorbitante di uno Stato "pigliatutto".
E ancora: si dovrà dire molto meglio di quanto fatto finora che il liberalismo non è dottrina "economicistica", cioè non consente di ridurre il significato della vita e dell'attività umana alla pura logica del profitto: non è vero, non è così.
Tutta la letteratura del miglior liberalismo è la dimostrazione convincente, vorrei dire schiacciante che gli aspetti etici all'interno del sistema di mercato non hanno minor valore e rilievo degli aspetti economici.
Ne deriva l'intollerabilità (troppo a lungo tollerata) dell'accusa al liberalismo di "relativismo morale": la cultura liberale è la cultura delle regole per tutti e dei comportamenti di ciascuno.
L'etica liberale è assolutamente severa, impegnativa, compromettente, ugualmente tollerante verso gli altri quanto inflessibile verso se stessi. Non è certo un'etica permissiva o diluita.
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Il liberalismo per l'Europa del 2000: una proposta semplice
di Carlo Scognamiglio
Nella storia del liberalismo esiste una certa regolarità nel processo di formazione delle Costituzioni. Questa consiste nella circostanza che la redazione, e l'approvazione, della "Carta" che regola i principali aspetti della vita e del funzionamento di una costruzione politica, la Costituzione, appunto, è generalmente preceduta da una "dichiarazione dei diritti": ovvero dalla redazione di un documento che fissa in modo chiaro e inequivocabile i valori etici e i principi filosofici ai quali la successiva Costituzione darà poi attuazione attraverso l'ordinamento politico.
Così fu in Inghilterra, dove, per la verità, le "dichiarazioni" furono più di una (la Petition of Rights del 1628 sulla libertà personale e la tassazione; la Declaration of Rights del 1689, lo stesso anno della pubblicazione del "Governo Civile" di John Locke); anche se poi gli inglesi non sentirono mai il bisogno di mettere per iscritto la Costituzione.
Così fu per la celebre, almeno presso di noi europei continentali, "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo" (26.8.1789)", che iniziò la storia del liberalismo costituzionale (Costituzioni dell'Anno I e III) francese, di quello italiano (dal 1797), e poi di quello tedesco, spagnolo, e così via.
Così fu, soprattutto, con la "Virginia Bill of Rights" scritta da Thomas Jefferson, a cui seguì, ispirata sempre da Jefferson, la "Dichiarazione dei Rappresentanti degli Stati Uniti in Congresso", ovvero la cosiddetta "Dichiarazione d'Indipendenza" (4.7.1776), cui undici anni più tardi seguì la Costituzione degli Stati Uniti d'America.
In questa dichiarazione si richiamano alcuni principi del diritto naturale; il diritto alla vita, alla libertà e alla pursuit of happiness (che in italiano tradurrei: il diritto alla speranza). Si indica chiaramente il concetto filosofico dello Stato che si intende costruire, affermando che lo Stato è istituito per tutelare i diritti dei cittadini (e non viceversa come forse pensò Hegel). Si precisa la natura dei rapporti politici: i governanti esercitano i loro poteri sulla base di un mandato fiduciario che esprime il consenso dei cittadini. Si giunge a stabilire il diritto alla ribellione se il mandato e la fiducia sono traditi.
Negli inglesi d'America era forte l'impronta che la filosofia dell'inglese John Locke aveva lasciato nello loro coscienze. Scacciati dalla loro patria da un potere assolutista in materia politica e religiosa, se ne crearono un'altra, che fu fondata sui valori e sui principi che essi avevano portato con sé.
In Europa il Trattato di Roma (1957) istituì la "Comunità", che fu trasformata in "Unione" dal Trattato di Maastricht. Affermare che i Trattati europei sono una costituzione è inesatto. Ma senza dubbio i Trattati contengono elementi costituzionali: innanzitutto perché, essendo recepiti dalle costituzioni nazionali degli Stati che costituiscono l'Unione, hanno "forza" costituzionale, cioè sono sovraordinati alla legislazione ordinaria. In secondo luogo perché contengono in sé elementi propri dell'ordinamento costituzionale: la corte di giustizia; un parlamento; organo di gestione "federale" di interessi comuni, come sarà il caso della Banca centrale europea; e così via.
Ma, ritornando all'origine liberale delle costituzioni occidentali, l'aspetto che più colpisce è costituito dal fatto che la nostra costituzione, o - almeno - quella parte del processo di costituzionalizzazione dell'Unione Europea fin qui si è realizzato, non è stata preceduta da una esplicita espressione dei valori ai quali le norme devono ispirarsi e, per altro verso, realizzare.
I principi fondatori che furono esplicitati prima dello sfortunato tentativo della CED (mai più guerre fra europei); e quelli che precedettero la firma del Trattato di Roma (Nous ne coalisons pas des états, nous unissons des hommes) esprimono valori forti e condivisi, ma non esauriscono certo l'arco dei valori su cui si fonda il liberalismo.
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Stato di diritto e governo di opinione
di Luigi Compagna
Società libera, si sarebbe detto un tempo, è quella che a presidio della libertà prevede "diritto di resistenza". Locke avrebbe parlato di "appello al cielo" e perfino di "diritto alla rivoluzione". La vicenda inglese prima, quella americana e quella francese poi, nelle loro implicazioni e nelle loro connessioni, sarebbero state così interpretate: non senza la suggestiva immagine di una partecipazione ad una stessa rivoluzione "atlantica".
All'istituto del diritto di resistenza, nella realtà pratica e nella speculazione teorica, è accaduto però in seguito di andar perdendo credito e credibilità a favore dello "Stato di diritto". Opposto ad ogni assolutismo, con Kant e grazie a Kant, l'antico riferimento alla rule of law inglese e al Reichtstaat tedesco è riuscito ad acquisire prospettive di modernità e moralità liberale più convincenti del lockiano "appello al cielo". Anche perché, contro lo Stato etico del totalitarismo, lo Stato di diritto si sarebbe configurato nel nostro secolo strumento di costituzionalismo be, più affidabile: affinché la società "libera" e non "occupata", "aperta" e non "chiusa", evocatrice di Hume e di Ferguson, di Hayek e di Popper, non di Hegel e Marx, Platone e Ceaucescu.
Uno Stato fondato sul diritto, conforme al diritto, soggetto al diritto, è quello che determina i limiti del suo operare e dell'azione di cittadini con norme di diritto. Ed è qui che il costituzionalismo liberale, non solo nella sua accezione anglosassone, si riallaccia per tanti versi ad antichi sentieri di costituzionalismo medievale: per impedire che medievale o medievaleggiante, corporata o corporativa, si faccia o si atteggi la società; per favorire un dispiegarsi di garanzie e di procedure, in luogo di privilegi e di presidi. Prima e più che in filosofia, quella dello Stato di diritto mira a radicarsi e ad esprimersi come realtà amministrativa e costituzionale.
Stato di diritto si ha, nella realtà amministrativa, quando vi si attui quel tipo di giurisdizione, della quale in Italia Spaventata enunciò i capisaldi nel famoso discorso di Bergamo del 1880, inerente lo Stato. Lo si ha, nella realtà costituzionale, quando lo Stato garantisce all'individuo che tanto nella formazione quanto nell'applicazione della legge mai potranno venir meno quei profili di libertà individuale, disegnati da Constant nella Francia della Restaurazione. Sicché "sua condizione precipua - ha scritto Francesco Ruffini (Diritti di libertà, Gobetti editore, Torino, p. 58) - è il rispetto della persona umana e dei suoi essenziali attributi, e suo scopo supremo la realizzazione dell'ideale della perfetta armonia fra il diritto dello Stato e quello dell'Individuo".
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Libertà economica e libertà politica
di Andrea Marcucci
Sono passati più di cinquant'anni dalla pubblicazione del famoso "Capitalismo, Socialismo e Democrazia", di J. Schumpeter, e il quadro culturale e politico è profondamente mutato.
Oggi, infatti, il modello capitalistico trova consensi pressoché unanimi, mentre il fallimento del modello comunista è sotto gli occhi di tutti.
Quella che Schumpeter definisce la "civiltà capitalistica', caratterizzata da una razionalità antieroica - l'attività imprenditoriale non prevede furori mistici - sembra del tutto priva di antagonisti e destinata ad un trionfo universale.
Anche ammesso che ciò sia vero, occorre sottolineare come l'accettazione (spesso acritica) del modello economico in questione non sia necessariamente prodromica all'affermazione di una società autenticamente liberale.
Anzi, si corre il rischio che, soprattutto nei paesi dell'est, si abbia l'affermazione del capitalismo senza la pratica del liberalismo.
La scorciatoia è pericolosa: se usciamo dalla visione - in questo caso assolutizzante - di Schumpeter che lo fa assurgere al ruolo di civiltà, e riportiamo il capitalismo a sistema economico, vediamo come esso abbia potuto pienamente svilupparsi solo nell'ambito della civiltà liberale, dove la libertà economica è sempre correlata con il pieno godimento della libertà politica.
Dobbiamo tenere presente come solo un capitalismo caratterizzato dalla "distruzione creatrice", sempre per dirla con Schumpeter, sia parte integrante di una società libera.
E' proprio questo carattere evolutivo del capitalismo, che sostituisce le strutture vecchie distruggendole e creandone di nuove, a renderlo compatibile con una società liberale,: come il capitalismo - nell'accezione pocanzi esposta - vivifica la società liberale, così solo in una società dove la libertà sia ampiamente sviluppata nelle sue diverse forme, il capitalismo mantiene intatta la sua forza creatrice e regolatrice.
Dove l'approdo al capitalismo avviene invece, come dicevamo, per negazione e per ripulsa di un altro modello economico, indipendentemente dal contesto socio politico, questa forza creatrice rischia di assopirsi, cristallizzando le strutture economiche esistenti, o, nell'assenza dell'intervento regolatore dello stato, di snaturarsi favorendo la tendenza al monopolio generalizzato.
Se questo rischio è senza dubbio presente nei paesi dell'ex impero sovietico a una prima analisi sembrerebbe di poter dire che i paesi occidentali - Italia compresa, ne siano immuni.
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appendice
Manifesto liberale di Oxford
Noi liberali di 19 nazioni, riuniti ad Oxford in tempo di disordine, povertà, carestia e paura causati da due guerre mondiali;convinti che le attuali condizioni del mondo sono largamente dovute all'abbandono dei principi liberali; affermiamo la nostra fede con la dichiarazione che segue:
I
1. L'uomo è innanzi tutto un essere dotato del potere di pensare e di agire liberalmente e della capacità di distinguere il bene dal male.
2. Il rispetto per la persona umana e per la famiglia è la vera base della società.
3. Lo Stato è soltanto uno strumento della comunità: esso non deve assumere alcun potere che possa venire in conflitto con i diritti fondamentali dei cittadini e con le condizioni indispensabili per una vita responsabile e creativa, e precisamente: la libertà individuale, garantita da un'amministrazione indipendente della legge e della giustizia; la libertà di culto e la libertà di coscienza; la libertà di parola e di stampa; la libertà di associarsi o non associarsi; la libera scelta dell'occupazione; la possibilità di una piena e varia educazione, secondo le capacità di ognuno e indipendentemente dalla nascita o dai mezzi; il diritto di proprietà privata e il diritto di iniziativa individuale; la libera scelta del consumatore e la possibilità di godere pienamente dei frutti della produttività del suolo e dell'industria dell'uomo; la sicurezza dai rischi di malattia, disoccupazione, incapacità e vecchiaia; l'eguaglianza dei diritti tra uomini e donne.
4. Questi diritti e queste condizioni possono essere assicurati solo da una vera democrazia. La vera democrazia è inseparabile dalla libertà politica ed è basata sul consenso cosciente, libero ed illuminato della maggioranza, espresso in un voto libero e segreto, con il dovuto rispetto per la libertà e per le opinioni delle minoranze.
II
1. La soppressione della libertà economica conduce inevitabilmente alla scomparsa della libertà politica. Noi ci opponiamo a tale soppressione, tanto se è conseguenza della proprietà o del controllo statale quanto se risulta da monopoli, cartelli o trust privati.
Noi ammettiamo la proprietà di Stato solo per le imprese che vanno oltre le possibilità della iniziativa privata o là dove la concorrenza non ha più modo di operare.
2. Il benessere della comunità deve prevalere e deve essere salvaguardato contro l'abuso del potere da parte di interessi particolari.
3. Un miglioramento continuo nelle condizioni del lavoro, nell'abitazione e nell'ambiente di vita dei lavoratori è essenziale. I diritti, i doveri e gli interessi del lavoro e del capitale sono complementari; la costituzione e la collaborazione organizzata tra datori di lavoro, e lavoratori è di vitale importanza per il buon andamento dell'attività produttiva.
III
Il servizio della comunità è il necessario complemento della libertà e ad ogni diritto corrisponde un dovere. Le libere istituzioni non possono funzionare efficacemente se ogni cittadino non ha un senso di responsabilità morale verso il suo prossimo e non prende parte attiva negli affari della comunità.
IV
La guerra può essere abolita, la pace del mondo e la prosperità economica possono essere ristabilite soltanto se tutte le nazioni si attengono alle seguenti condizioni:
a) la partecipazione leale a un'organizzazione mondiale di tutte le nazioni grandi e piccole, retta da principi uniformi di diritto e di equità, con il potere di imporre la stretta osservanza di tutti le obbligazioni internazionali liberamente contratte;
b) il rispetto per il diritto di ogni nazione di godere delle libertà umane essenziali;
c) il rispetto per la lingua, la religione, le leggi e i costumi delle minoranze nazionali;
d) il libero scambio delle idee, delle notizie, delle merci e dei servizi fra le nazioni, e la libertà di movimento all'interno di ogni Paese e fra Paese e Paese, senza gli ostacoli costituiti dalla censura, dalle barriere commerciali protezionistiche e dalle restrizioni sui cambi;
e) lo sviluppo delle aree arretrate del mondo con la collaborazione dei loro abitanti, nel loro vero interesse e nell'interesse del mondo intero.
Facciamo appello a tutti gli uomini e a tutte le donne che accettano questi ideali e principi perché si uniscano a noi per ottenere la loro affermazione in tutto il mondo.
Wadham College - Oxford
aprile 1947
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